Salgo gli scalini del metrò con le guglie del duomo che affiorano allo sguardo, ripulite di smog, e sotto ai miei piedi, ogni gradino calpestato emette una nota musicale. Scoperta la magia, una ragazza saltella in sù e giù a inseguire le note di questa insolita tastiera e sembra leggera come il personaggio di un cartone animato. Non si può non sorridere divertiti, anche perché, oltre la piazza del Duomo, proprio davanti al Palazzo Reale, che ospita la mostra, si scorge una piccola casetta di legno bianco, in puntuale stile Hopper.
E’ il richiamo finale e, nonostante un’imprevista coda di visitatori, alla fine sono dentro, al caldo cospetto di centosessanta tra dipinti, disegni, acqueforti e bozzetti che percorrono tutta la vita del maestro. Hopper nasce nel 1882 e scompare nel 1967, americanone alto 1,90 che, fin da bambino, dimostra una spiccata attitudine alla pittura. Edward Hopper è piuttosto noto per il realismo con cui rappresenta le scene della vita americana, tavole calde e stazioni di benzina, interni di bar e di cinema, personaggi appartenenti alla middle class, e poi le case, deliziose icone della sua pittura precisa.
I disegni che si osservano sono numerossimi, studi di quadri poi divenuti famosi e segno incontestabile del talento dell’artista. I suoi disegni illustrano donne in pose erotiche dai volti anche grotteschi, soggetti comuni di intensa e solitaria bellezza. Poi ci sono gli oli e alcuni pezzi forti dei suoi capolavori come il celebre “Soir bleu. In questo quadro si vedono personaggi ritratti a Parigi su un terrazzo da cui si vedono delle montagne e anche da questo anacronistico particolare si intuisce come sia da considerare “non rigido” il realismo di Hopper.
Insomma il tempo scorre al galoppo ed io, con le mie belle sensazioni e con qualche consapevolezza in più sull’artista Edward Hopper, devo cercare il mio treno per il ritorno. Lo acciuffo, al brucio, sul binario nr 4 della stazione centrale. Il treno parte accelerando sui binari. Vicino a Vercelli, nel vagone, tutte le luci si spengono di colpo e lo sguardo scruta il finestrino dove la notte biancheggia per la patina di neve.
A Vercelli salgono un ragazzo e una donna; il ragazzo trascina tra i piedi una fisarmonica sfibrata e tappezzata di cerotti. Una quarantenne, vestita da adolescente, parla con il bigliettaio il quale si giustifica, per l’intercorso disservizio delle luci, dicendo che purtroppo è rimasto solo a lavorare mentre prima erano in tre. Così scivola via anche il controllo dei biglietti. Poi il treno corre verso Santhià e, nel vagone, le luci tonde delle lampade sono adesso come aureole sulle teste dei passeggeri e non si spengono più.
A Santhià, la mia 2cv, principessa addormentata, mi attende nel gelo. Milano è già un frammento mondano che cerca spazio nella memoria, metropoli che sfuma nella notte nevosa. Con i fari incerti sulla strada di casa la 2cv e il sottoscritto, lentamente, assaporano il piacere del rientro.
