Parte terza
I suoni della strada: come cambiano nell’arco di una vita.
Acuti, striduli, ticchettii nella mia infanzia fatta di carretti e cavalli; gommosi, ovattati ma scoppiettanti nella mia adolescenza, con la Balilla del nostro vicino dentista, lo scooter dello zio Ennio, e la Topolino dello zio Bepi.
Il lavandaio di Avesa rappresentò l’età di mezzo in questi vistosi mutamenti sonori che sempre più velocemente evolvevano nel loro riecheggiare per la via e la piazzetta dove mio padre aveva progettato per il suo imprenditore, dopo i bombardamenti, la casa che abitavamo al terzo piano.
Il modo di parlare all’asino, per convincerlo alle precise manovre di parcheggio, rispettava un canone magico inaccessibile, di esclusivo appannaggio dei due mammiferi, pur posti a diversi livelli evolutivi.
Era un modo di intendersi esclusivo, fra loro due, che alla fatica di un lento viaggio, dovevano aggiungere sconosciuti rumori di una città che sempre più si allontanava dai modi di una periferia antica, agricola e ancora per poco legata ai lenti ritmi campestri.
A quei richiami, indecifrabili, ma ormai riconoscibili, mi affacciavo di corsa al terrazzino per assistere alla precisa ma energica manovra di ancoraggio dell’asino al lampione per garantire una sicura sosta al carretto e un conosciuto e rassicurante riferimento all’asino.
Dall’alto il carico sembrava una torta di panna montata, con quel suo andamento a piramide fatto di lindi sacchi bianchi con il collo strozzato da uno spago colorato a distinguere le diverse proprietà, più precisamente contrassegnate da una sigla ricamata nella parte più alta per essere velocemente leggibile.
Al muoversi dei sacchi per ritracciare i nostri, si sollevava un unico profumo di sapone da bucato che pian piano di disperdeva e si spegneva in buona parte della piazzetta.
Il carico sulla schiena avveniva con la stessa e consolidata tecnica dello spazzino con quel movimento di arretramento della schiena quasi ad invitare il sacco della biancheria a svegliarsi dal suo assonnato viaggio per guadagnare la sua destinazione finale.
Erano questi momenti importanti, rari, attesi e fra noi fratelli si faceva a gara ad aprire la porta e ad andare incontro a questo prezioso carico di nostre intimità.
Cosa da grandi, invece, era il conteggio dei capi con la spunta dell’elenco scritto a mano nel momento della consegna.
Altra consegna, altra spunta di carico della biancheria da lavare, il saluto col cappello in mano, e il lavandaio se ne scendeva col nuovo carico.
La partenza comportava meno spettacolo, bastava uno sguardo e un comando dato più per consuetudine che necessità e quel piccolo mondo se ne andava maggiormente rassicurato da l’odore di un percorso già tracciato e subito riconosciuto.
FINE PARTE TERZA