DA UN CAMPETTO DI CALCIO ALL'AMERICA LATINA

Aperto da paoloDòCavaj, 16 Marzo 2013, 18:38:01 PM

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paoloDòCavaj

Ero molto giovane. E guardavo il mondo con gli occhi di un ragazzo cresciuto all'ombra del sogno di un campanile che ancora non c'era, in un polveroso campetto da calcio.
La chiesa era nell'umido scantinato delle suore e la canonica in un anonimo appartamento del quartiere.

Eppure, in quel clima di periferia, ancora col sapore di aratri, orti e campagna, una piccola comunità cresceva unita, ragazzi e ragazze assieme a scoprire il senso delle cose e della via.

Fu un giovane curato, allora, che ci riscattò dalle lotte per il fortino, un residuato bellico, in riva all'Adige, che "gli americano" volevano come base della loro banda. Ancora una cicatrice sul sopracciglio a sinistra, mi ricorda ogni mattina nel correggermi la barba, quest'ultimo barlume di "resistenza" a questi nostri nuovi invasori, troppo grossi, troppo attrezzati, troppo colorati, con troppe auto e cose enormi da invidiare, biciclette e monopattini.
Talvolta si capitolava per un guantone o una mazza da baseball, un pacchetto di "gomme americane" o una visita al loro supermercato stracolmo di abbaglianti meraviglie.

In questo clima di piccolo teppismo da agroperiferia, don Giulio ci parlava dell'uomo, del rispetto per se stessi e le persone, di dignità nell'essere, prima ancora di parlare di chiesa e di religione.

Ci affascinò col suo interessarsi a noi, ai nostri problemi quotidiani di adolescenti lasciati  crescere fra se stessi quasi in una "sufficiente autosufficienza da selvaggi".

Ci stimolava a far sorgere delle domande e ci sosteneva nello scoppiettio di improvvisi umori e sentimenti.

Scoprimmo allora che noi e le nostre storie erano importanti.

(FINE PRIMA PARTE)

Roberto Threeyes

 (superok) evviva!!! quanti scrittori! occhio che qualcuno ci fa un libro con ste storie e vendendole ci fa i soldini:

STORIE DI DUECAVALLISTI

paoloDòCavaj

#2
Il quartiere da cui provenivo, dove ero nato e avevo vissuto pietra per pietra, strada per strada fin nel reticolo chiaroscuro dei suoi vicoli, sapeva di antico, di quel muschioso umido che si attacca ai massi squadrati di tufo, materia privilegiata da costruzione della mia città, più che alle linde e preziose pietre dell'Anfiteatro.

Ero nato dietro l'ala dell'Arena, e giorno dopo giorno avevo assimilato uno scandire delle ore ritmato da campane, che si rincorrevano in competizione sull'alto dei numerosi campanili di una città fervente di fede fedele nei tempi.

Il selciato, spesso fatto di levigati sassi dell'Adige, risuonava ancora dello stridio acuto del ferro delle ruote dei carretti, spesso spinti a braccia e gambe, e dal ticchettio lento ma pesante degli zoccoli dei cavalli da tiro.

Gli appuntamenti importanti che avvenivano erano anticipati dal gemito da cicala del campanello.

Ogni giorno aspettavamo l'arrivo dello spazzino che, partendo dai piani alti, raccoglieva, appartamento per appartamento, le immondizie accumulate nel quotidiano tramestio di ciascuna famiglia. Tutto finiva in uno spesso saccone grigio che con pochi gesti sapienti sia apriva e si richiudeva per poi, a due mani, salire pian piano sulla schiena, che dapprima si inarcava all'indietro ad accoglierlo a terra, per poi risollevarsi di scatto e assestarsi sulla schiena leggermente curva in avanti, dopo aver ricevuto dei brevi scossoni di assestamento.
Legato alla cintura c'era un sacchetto più piccolo, prezioso nel suo contenuto di ciò che, dopo una velocissima ma attenta selezione, riteneva ancora utilizzabile e, non raramente, masticabile.

Ma l'appuntamento più spettacolare e complesso era il venerdì: l'arrivo del carro del lavandaio dalla contrada dei torrenti,  delle donne inginocchiate alle loro rive a far bucato, e dei panni stesi al vento ad asciugare in una babele di cavi tirati zigzagando per i vicoli

FINE SECONDA PARTE


Ludo

La stupidità divora facce e nomi senza storia

paoloDòCavaj


Parte terza

I suoni della strada: come cambiano nell'arco di una vita.
Acuti, striduli, ticchettii nella mia infanzia fatta di carretti e cavalli; gommosi, ovattati ma scoppiettanti nella mia adolescenza, con la Balilla del nostro vicino dentista, lo scooter dello zio Ennio, e la Topolino dello zio Bepi.
Il lavandaio di Avesa rappresentò l'età di mezzo in questi vistosi mutamenti sonori che sempre più velocemente evolvevano nel loro  riecheggiare per la via e la piazzetta dove mio padre aveva progettato per il suo imprenditore, dopo i bombardamenti, la casa che abitavamo al terzo piano.

Il modo di parlare all'asino, per convincerlo alle precise manovre di parcheggio, rispettava un canone magico inaccessibile, di esclusivo appannaggio dei due mammiferi, pur posti a diversi livelli evolutivi.
Era un modo di intendersi esclusivo, fra loro due, che alla fatica di un lento viaggio, dovevano aggiungere sconosciuti  rumori di una città che sempre più si allontanava dai modi di una periferia antica, agricola e ancora per poco legata ai lenti ritmi campestri.

A quei richiami, indecifrabili, ma ormai riconoscibili, mi affacciavo di corsa al terrazzino per assistere alla precisa ma energica manovra di ancoraggio dell'asino al lampione per garantire una sicura sosta al carretto e un conosciuto e rassicurante riferimento all'asino.

Dall'alto il carico sembrava una torta di panna montata, con quel suo andamento a piramide fatto di lindi sacchi bianchi con il collo strozzato da uno spago colorato a distinguere le diverse proprietà, più precisamente contrassegnate da una sigla ricamata nella parte più alta per essere velocemente leggibile.

Al muoversi dei sacchi per ritracciare i nostri, si sollevava un unico profumo di sapone da bucato che pian piano di disperdeva e si spegneva in buona parte della piazzetta.

Il carico sulla schiena avveniva con la stessa e consolidata tecnica dello spazzino con quel movimento di arretramento della schiena quasi ad invitare il sacco della biancheria a svegliarsi dal suo assonnato viaggio per guadagnare la sua destinazione finale.
Erano questi momenti importanti, rari, attesi e fra noi fratelli si faceva a gara ad aprire la porta e ad andare incontro a questo prezioso carico di nostre intimità.

Cosa da grandi, invece, era il conteggio dei capi con la spunta dell'elenco scritto a mano nel momento della consegna.
Altra consegna, altra spunta di carico della biancheria da lavare, il saluto col cappello in mano, e il lavandaio se ne scendeva col nuovo carico.

La partenza comportava meno spettacolo, bastava uno sguardo e un comando dato più per consuetudine che necessità e quel piccolo mondo se ne andava maggiormente rassicurato da l'odore di un percorso già tracciato e subito riconosciuto.

FINE PARTE TERZA