VIAGGIARE spunti idee riflessioni vissuti occasioni sconvolgimenti by paolon2cv

Aperto da paoloDòCavaj, 26 Gennaio 2013, 08:37:47 AM

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 il primo pensiero sei tu.....

         

                                        TOUT LASSE TOUT CASSE TOUT PASSE.... (nonso)




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                 http://www.youtube.com/watch?feature=player_detailpage&v=wh0-6ZJKF44#t=200s

C'è solo la strada su cui puoi contare
la strada è l'unica salvezza

c'è solo la voglia e il bisogno
di uscire
di esporsi nella strada e nella piazza
perché il giudizio universale non passa per le case
le case dove noi ci nascondiamo

bisogna ritornare nella strada
strada
        per conoscere chi siamo.

                     

Leggi tutto il testo su: http://singring.virgilio.it/testi/giorgio-gaber/testo-c-e-solo-la-strada.html


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                                                  Solo i folli mi interessano


       

                                        Quelli che hanno il furore di vivere e di parlare


                         

                                                  Quelli che vogliono gioire di tutto


       

                                           Che non si chiudono mai nè dicono banalità


   

                                             Ma che bruciano.....


           

                       ....bruciano, bruciano, come una candela nella notte




         


   



                                           

Simone


paoloDòCavaj

#6

                   (Si, viaggiare ovvero: ricordi di"autostop", un modo che non esiste quasi più)
.... riprendo qui, in un 3ad apparentemente più tranquillo, alcuni brani sul tema del viaggiare tratti da:



E mentre me ne stavo lí seduto ad ascoltare quel suono notturno che il be-bop era venuto a rappresentare per tutti noi, pensavo a tutti i miei amici da un capo all'altro del paese e come in realtà si trovassero tutti nello stesso vasto cortile e far qualcosa di cosí frenetico e convulso.
E per la prima volta nella mia vita, il pomeriggio seguente, entrai nel West.

Era una giornata calda e bella per l'autostop.
... mi piantai proprio fuori del paese dopo una passeggiata attraverso le strade laterali ombrose e sconnesse, e chiesi passaggi. ..
Il primo passaggio mi venne dato da un autocarro di dinamite che portava una bandiera rossa, per circa cinquanta chilometri nel grande Illinois verde, mentre il camionista mi indicava il punto nel quale la Statale 6, sulla quale viaggiavamo, incrociava la Statale 66 prima che entrambe saettassero a ovest verso incredibili distanze.
... una donna in una vetturetta chiusa si fermò per prendermi su. Sentii dentro una fitta di acre gioia mentre rincorrevo la macchina. Ma quella era una donna di mezza età, in realtà madre di figli della mia età, e voleva che qualcuno l'aiutasse a guidare fino allo Iowa. Mi ci buttai a pesce.
Iowa! Non molto lontano da Denver, e una volta arrivato là avrei potuto riposarmi.

Prima guidò lei per poche ore, a un certo punto insistette per visitare una vecchia chiesa in un certo luogo, come se fossimo stati turisti e poi presi io il volante e, quantunque non valga gran che come autista, guidai dritto attraverso il resto dell'Illinois fino a Davenport, nello Iowa, passando per Rock Island.
E qui per la prima volta nella mia vita vidi il mio adorato fiume, il Mississippi, asciutto nella caligine estiva, l'acqua bassa, con quel suo forte ricco odore che è lo stesso del crudo corpo dell'America perché la lava tutta.
Rock Island: binari ferroviari, baracche, piccole frazioni di paese; e sopra il ponte andammo a Davenport, stesso tipo di città, tutta odorosa di segatura nel caldo sole del Middlewest. Qui la signora doveva proseguire verso il suo paese natale nello Iowa per un'altra strada, e io scesi.

Il sole stava tramontando.
Camminai, dopo qualche birra fredda, fino alla periferia della cittadina, e fu una lunga passeggiata.
Tutti gli uomini tornavano a casa in macchina dal lavoro, portando berretti da ferrovieri, berretti da baseball, ogni genere di copricapi, proprio come in ogni città del mondo, dopo il lavoro.
Uno di essi mi diede un passaggio su per la collina e mi lasciò a un incrocio solitario sull'orlo della prateria. Era bello lí.
Le uniche macchine che passavano erano quelle degli agricoltori; questi mi davano occhiate sospettose, passavano sferragliando, le vacche rientravano alla stalla.
Nemmeno un autocarro. Poche automobili sfrecciarono via.
Un ragazzo su una macchina dal motore truccato mi passò accanto con la sciarpa sventolante.
Il sole continuava a calare e io rimasi ritto nell'oscurità violetta.

Adesso avevo paura.
Non c'era nemmeno una luce nella campagna dello Iowa; entro un minuto nessuno sarebbe stato in grado di vedermi. Per fortuna un uomo che tornava a Davenport mi diede un passaggio fino in città.
Ma io mi ritrovavo esattamente al punto di partenza.

.... Qua i grossi autotreni passavano rombando, vramm!, e nel giro di due minuti uno di essi deviò e si fermò per me. Io gli corsi appresso con l'anima che esultava.
E che autista... un camionista grande e grosso e duro con gli occhi sporgenti e una voce ruvida e aspra, che semplicemente sbatté e prese a calci ogni cosa e mise in moto il suo arnese e quasi non mi vide nemmeno.

Cosí potei riposare un po' la mia anima stanca, poiché una delle piú grandi seccature dell'autostop è il dover parlare con innumerevoli persone, dar loro la sensazione che non hanno fatto un errore a prenderti su, persino divertirli, quasi, e tutto questo è un notevole sforzo quando si fa un lungo viaggio e non si ha in programma di andare a dormire negli alberghi.

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... Proprio mentre entravamo in città egli vide un altro autotreno che ci veniva dietro e siccome lui doveva girare da Iowa City fece al collega segnali con i fanalini posteriori e rallentò perché potessi saltar giú, cosa che feci portandomi appresso la valigia, e l'altro autotreno, accettando lo scambio, si fermò per me, e ancora una volta, in un batter d'occhio, mi trovai in una nuova cabina alta e grossa, prontissimo a fare centinaia di chilometri nella notte, e com'ero felice!

E il nuovo camionista era un tipo fantastico come l'altro e urlava altrettanto, e io dovevo solo stare appoggiato allo schienale e lasciarmi trasportare.
... Quegli spinse la macchina a forte andatura e raccontò storielle per un paio d'ore, poi, in un paese dello Iowa dove anni dopo Dean e io saremmo stati fermati come sospetti in una Cadillac che sembrava rubata, dormí qualche ora sul sedile.
Dormii anch'io, e poi feci una passeggiatina lungo i solitari muri di mattoni illuminati da un'unica lampadina, con la prateria che si affacciava alla fine di ogni stradina e l'odore del granoturco come rugiada nella notte.

Il camionista si svegliò all'alba con un sussulto.
Ci rimettemmo fragorosamente in moto, e un'ora dopo il fumo di Des Moines apparve di fronte, di là dai verdi campi di granoturco.
Lui adesso doveva fare colazione e voleva prendersela comoda, cosí proseguii per Des Moines, a circa sette chilometri, avendo ottenuto un passaggio da due studenti dell'Università dello Iowa; ed era strano sedere nella loro comoda automobile nuova fiammante e sentirli parlare di esami mentre scivolavamo dolcemente verso la città.

Adesso volevo dormire una giornata intera. Cosí ... andai a finire in un malinconico vecchio albergo di terz'ordine accanto al deposito delle locomotive e passai una lunga giornata a dormire sopra un ampio letto bianco duro e pulito con frasi sconce graffite sul muro accanto al mio guanciale e la malandata serranda gialla abbassata sopra il panorama fumoso dello scalo ferroviario.

Mi svegliai che il sole si faceva rosso; e quello fu l'unico, chiaro momento della mia vita, il momento piú strano di tutti, in cui non seppi chi ero...
Mi trovavo lontano da casa, ossessionato e stanco del viaggio, in una misera camera d'albergo che non avevo mai vista, a sentire i sibili di vapore là fuori, e lo scricchiolare di vecchio legno della locanda, e dei passi al piano di sopra, e tutti quei suoni tristi; e guardavo l'alto soffitto pieno di crepe e davvero non seppi chi ero per circa quindici strani secondi.
Non avevo paura; ero solo qualcun altro, un estraneo, e tutta la mia vita era una vita stregata, la vita di un fantasma.
Mi trovavo a metà strada attraverso l'America, alla linea divisoria fra l'Est della mia giovinezza e l'Ovest del mio futuro, ed è forse per questo che ciò accadde proprio li e in quel momento, in quello strano pomeriggio rosso.

Ma dovevo rimettermi in cammino e smettere di lamentarmi, cosí presi su la valigia, dissi arrivederci al vecchio albergatore che sedeva accanto alla sua sputacchiera, e andai a mangiare.
...A Des Moines, nel pomeriggio, c'erano i piú bei branchi di ragazze, dovunque guardassi - tornavano a casa dal liceo - ma adesso non avevo tempo per pensieri del genere e mi ripromisi di darmi alla pazza gioia a Denver.
... Cosí mi allontanai di corsa dalle belle ragazze, e le piú belle del mondo sono quelle che vivono a Des Moines.

Un tipo con una specie di officina su ruote, un autocarro pieno di attrezzi, che quello guidava stando ritto come un moderno lattaio, mi diede un passaggio su per la collina, dove ne ottenni immediatamente un altro da un agricoltore e da suo figlio, che erano diretti ad Adel, nello Iowa.
In questo paese, sotto un grosso olmo vicino a un distributore di benzina, feci la conoscenza dì un altro autostoppista, tipico newyorchese, un irlandese che aveva guidato un autocarro postale per la maggior parte dei suoi anni lavorativi e adesso andava incontro a una ragazza di Denver e a una nuova vita.
Credo che stesse scappando da qualcosa a New York, dalla polizia, molto probabilmente.
Era un vero giovane ubriacone dal naso rosso, trentenne, e normalmente mi avrebbe annoiato, solo che ora i miei sensi erano svegli ad ogni genere di amicizia umana.

Indossava un golf logoro e pantaloni rigonfi e non aveva niente con sé che assomigliasse a un bagaglio: solo uno spazzolino da denti e pochi fazzoletti. Affermò che avremmo dovuto fare l'autostop insieme.
Avrei dovuto dire di no, perché si presentava piuttosto male sulla strada. Però rimanemmo insieme e ottenemmo un passaggio da un tipo taciturno fino a Stuart, sempre nello Iowa, un paese nel quale letteralmente ci arenammo.

Siamo cosi arrivati, saltando qua e là a pagina 19     

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La strada come un filo rosso che collega persone e le persone alle loro storie

             


....  aspettare le macchine dirette a ovest, fino al tramonto del sole, per cinque ore buone, cercando d'ingannare il tempo; dapprima parlammo di noi stessi, poi lui raccontò barzellette sporche, quindi ci mettemmo a dar calci ai sassi e a fare sciocchi versi di tutti i generi. Ci annoiavamo.

Decisi di buttare un dollaro per della birra; andammo in una vecchia bettola di Stuart e ne bevemmo alcune. Poi quello si ubriacò come non aveva mai fatto nelle sue notti nella Nona Avenue, al suo paese, e mi strillò gioiosamente nelle orecchie tutti i sordidi sogni della sua vita.
In certo modo mi piaceva; non perché fosse un buon diavolo, come diede prova di essere in seguito, ma perché aveva entusiasmo per ogni cosa.

Tornammo sulla strada nell'oscurità, e naturalmente nessuno si fermò e poca gente passava. Andammo avanti cosí fino alle tre del mattino. ...Si chiamava Eddie. Mi ricordava un mio cugino d'acquisto del Bronx. Fu per questo che mi attaccai a lui. Era come avere accanto un vecchio amico, un buontempone sorridente col quale divertirmi un po'.

Arrivammo a Council Bluffs all'alba; guardai fuori. Tutto l'inverno avevo letto delle grandi carovane di carri che tenevano adunanza in quel luogo prima di avventurarsi sulle piste per l'Oregon e Santa Fe ... Poi Omaha e, per Dio, il primo cow-boy che avessi mai visto, il quale camminava lungo i muri desolati dei magazzini di carne all'ingrosso con un cappello a tese larghissime e stivali del Texas, e aveva l'aspetto di un qualsiasi individuo male in arnese all'alba, lungo i muri di mattoni dell'Est, fuorché per l'abbigliamento.

... uscimmo in aperta campagna e facemmo cenni col pollice proteso. Ottenemmo un breve passaggio da un ricco allevatore di bestiame con un gran cappellone, il quale disse che la valle del Platte era grande come quella del Nilo in Egitto, e mentre egli parlava io vidi i grandi alberi serpeggiare in distanza seguendo il letto del fiume e i vasti campi verdeggianti all'intorno, e quasi fui d'accordo con lui.

Poi, mentre stavamo fermi a un altro crocevia e il cielo cominciava ad annuvolarsi, un altro cow-boy, costui alto piú di un metro e ottanta e con un cappellone di modeste dimensioni, ci chiamò e s'informò se uno di noi sapesse guidare.
Naturalmente Eddie ne era capace, e aveva la patente, mentre io no. Il cow-boy aveva con sé due macchine che stava riportando nel Montana. Sua moglie stava a Grand Island, ed egli voleva che noi guidassimo una delle macchine fin là, dove sarebbe subentrata lei. Da quel punto lui doveva andare a nord, e questo sarebbe stato il termine del nostro viaggio con lui. Però si trattava di centosessanta chilometri buoni dentro il Nebraska, e naturalmente ci buttammo a pesce.

Eddie guidava da solo, il cow-boy e io gli tenevamo dietro, e non appena fummo fuori dell'abitato Eddie cominciò a lanciare quell'arnese a centocinquanta l'ora per pura esuberanza. «Che io sia dannato, che sta combinando quel ragazzo?» urlò il cow-boy; e gli volammo appresso. Finí per diventare una specie di gara. Per un minuto credetti che Eddie tentasse di battersela con la macchina: e per quanto ne so era questo che voleva fare. Ma il cow-boy gli stette alle costole e lo raggiunse e suonò il clacson. Eddie rallentò. Il cow-boy suonò ancora perché si fermasse.
«Diavolo, ragazzo, va a finire che resti con una ruota a terra andando a quella velocità. Non puoi guidare un po' piú piano?»
«Be', che il diavolo mi porti, davvero stavo andando a centocinquanta all'ora?» chiese Eddie. «Non me ne sono reso conto su questa strada liscia.»
«Vacci piano e arriveremo tutti a Grand Island sani e salvi.» «Senz'altro.» E riprendemmo il viaggio.

Eddie si era calmato e probabilmente gli era venuto persino sonno. Cosí procedemmo per centosessanta chilometri attraverso il Nebraska, seguendo il Platte tortuoso con i suoi campi verdeggianti.
«Durante la crisi» mi disse il cow-boy «ero solito saltare sui treni merci almeno una volta al mese.
In quei giorni si potevano vedere centinaia di uomini che viaggiavano su un pianale o su un carro chiuso, e non erano mica pezzenti, erano ogni sorta di gente senza lavoro che andava da un posto all'altro e alcuni di loro si limitavano a vagare qua e là. Era cosí in tutto il West.
In quei giorni i frenatori non ti seccavano mai. Oggi, non lo so.
Io del Nebraska non so che farmene. Come, fra il '30 e il '40 questa regione non era altro che una grossa nuvola di polvere fin dove giungeva la vista. Non si poteva respirare. Il suolo era nero. Io ero qua allora.
Per quanto mi riguarda possono restituire il Nebraska agli indiani. Odio questo posto schifoso piú di qualsiasi altro al mondo. Adesso la mia patria è nel Montana, a Missoula. Venite su qualche volta e vedrete la regione prediletta da Dio.»
Piú tardi nel pomeriggio dormii quando lui si stufò di parlare; era un conversatore interessante.

Ci fermammo lungo la strada per mangiare un boccone. Il cow-boy se ne andò a far rattoppare la ruota di scorta, ed Eddie e io ci andammo a sedere in una specie di trattoria casalinga. Sentii una grossa risata, la piú grossa risata del mondo, ed ecco entrare.....

Siamo a pag.21

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..... ed ecco entrare nella trattoria una pellaccia di agricoltore vecchio stampo del Nebraska con un gruppo di altri ragazzi; quel giorno si potevano sentire le sue grida rauche attraverso tutta la pianura, attraversa l'intero loro grigio mondo.
Tutti gli altri ridevano con lui.
Non aveva un pensiero al mondo e manifestava il piú grande rispetto per ognuno.
Io mi dissi: "Càspita, senti come ride quello".

Ecco il West, eccomi qua nel West.
Quegli entrò tuonando nella trattoria, chiamando Ma' per nome, ed ella faceva la piú dolce torta di ciliegie del Nebraska, e io ne ebbi un pezzo con una montagna di gelato sopra.
«Ma', portami di corsa qualcosa da mettere sotto i denti prima che mi tocchi cominciare a mangiarmi crudo o che mi venga qualche altra stupida idea del genere.»
E si buttò su uno sgabello e continuò a fare ahaaa! ahaaa! ahaaa! ahaaa!
«E mettici dentro anche dei fagioli.»

Era lo spirito del West che sedeva proprio accanto a me.
Avrei voluto conoscere tutta la sua cruda vita e che diavolo aveva fatto in tutti quegli anni oltre a ridere e a urlare in quel modo.
"Juhu!" dissi all'anima mia, e il cow-boy tornò e ripartimmo per Grand Island.

Ci arrivammo in un battibaleno. Lui se ne andò a prendere la moglie e poi, via, verso qualunque fosse il destino che l'attendeva, mentre Eddie e io eravamo di nuovo sulla strada.
Ottenemmo un passaggio da una coppia di giovanotti - arrabbiati, sotto i venti, ragazzi di campagna dentro a un vecchio catenaccio rappezzato - e fummo lasciati a un certo punto del percorso in un fine piovigginare.

Poi un vecchio taciturno - e Dio sa perché ci prese su - ci portò fino a Shelton.
Qua Eddie rimase smarrito in mezzo alla strada di fronte a un gruppo di imbambolati indiani di Omaha, bassi e tarchiati, che non avevano dove andare e niente da fare.
Di là dalla strada c'erano i binari della ferrovia e il serbatoio dell'acqua sul quale c'era scritto SHELTON. «Che il diavolo mi porti» disse Eddie sbalordito «son già stato in questa città. È stato anni fa, durante la guerra, di notte, a notte fonda quando tutti dormivano. Andai fuori a fumare sulla piattaforma, ed ecco che eravamo nel centro del nulla e nero come l'inferno, e guardai in su e vidi quel nome Shelton scritto sul serbatoio. Destinati al Pacifico, tutti che russavano, ognuno di quei maledetti gonzi idioti, si fece una sosta brevissima, per far rifornimento o altro, e subito ripartimmo. Che io sia dannato, questa è Shelton! Ho odiato questo posto fin da allora!»

Ed eravamo bloccati a Shelton. Come a Davenport, nello Iowa, non si sa perché tutte le macchine appartenevano ad agricoltori, e una volta tanto passava un'automobile di turisti, il che è ancora peggio, con uomini anziani al volante e le mogli che indicavano il panorama o consultavano le carte, e sedevano dietro guardando ogni cosa con facce sospettose.

La pioggerella rinforzò ed Eddie aveva freddo; era vestito assai leggermente. Io pescai dalla mia valigia di canapa una camicia di lana scozzese e lui se la mise. Si sentí un po' meglio. Ero
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raffreddato. Comprai delle pasticche per la tosse in una specie di sgangherato negozio indiano.
Andai al piccolo ufficio postale grande quanto un fazzoletto e scrissi a mia zia una cartolina da un penny. Tornammo sulla strada grigia. Eccola là di fronte a noi, Shelton, scritta sul serbatoio dell'acqua.
Il treno da Rock Island ci sfrecciò davanti. Vedemmo le facce dei passeggeri nelle carrozze salone passare in un barbaglio confuso. Il treno ululò via attraverso le praterie nella direzione dei nostri desideri.
Cominciò a piovere piú forte.
Un tipo alto e dinoccolato con un cappello a larghe tese fermò la sua macchina in contromano e attraversò verso di noi; aveva l'aria di uno sceriffo.
Noi preparammo segretamente le nostre storie.
Lui si avvicinò senza affrettarsi. «Andate da qualche parte di preciso, voi ragazzi, o viaggiate senza meta?» Non capimmo la domanda, eppure era una domanda maledettamente chiara.
«Perché?» chiedemmo.
«Be', io sono proprietario di un piccolo luna-park che è sistemato a pochi chilometri da qui sulla strada e sto cercando dei bravi ragazzi che abbiano voglia di lavorare e di guadagnarsi qualche dollaro. Ho la licenza per una roulette e per un tiro agli anelli, sapete, di quelli che si buttano attorno alle bambole e chi vince vince. Se volete lavorare per me, ragazzi, potete avere il trenta per cento sugl'incassi.»
«Vitto e alloggio?»
«Avrete un letto ma niente vitto. Vi toccherà mangiare in paese. Noi viaggiamo parecchio.»
Ci pensammo su. «E una buona occasione» disse lui, e attese pazientemente che ci decidessimo.

Ci sentivamo sciocchi e non sapevamo che cosa dire, e io prima di tutto non volevo restare impegolato con un luna-park. Avevo una tale maledetta fretta di raggiungere la comitiva a Denver.
Risposi: «Non so, vado piú presto che posso e non credo di aver tempo.» Eddie disse la stessa cosa, e il vecchio salutò con la mano e con indifferenza tornò lentamente all'automobile e partí.
E questo fu tutto. Noi ci ridemmo su per un po' e facemmo congetture su come avrebbe potuto essere.
Vedevo una notte oscura e polverosa sulle pianure, e le facce delle famiglie del Nebraska che ci bighellonavano accanto, con i loro bimbi rosei che guardavano tutto con reverenza, e so che avrei avuto l'impressione d'essere il diavolo in persona a prenderli in giro con quei trucchi da baraccone da quattro soldi. E la Gran Ruota che girava nell'oscurità del bassopiano e, Dio santissimo, la musica triste della giostra e io voglioso di raggiungere la mia meta... e coricato in qualche carrozzone con le dorature, su un letto di traliccio.

Eddie si dimostrò un compagno di viaggio piuttosto distratto.
Venne avanti un buffo vecchio trabiccolo, guidato da un uomo anziano; era fatto di una specie di alluminio, quadrato come una scatola: un rimorchio, senza dubbio, ma uno strano pazzesco
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rimorchio del Nebraska, fatto a mano. Andava pianissimo e si fermò. Noi corremmo avanti; quello disse che avrebbe potuto portare una persona sola; senza una parola Eddie saltò dentro e lentamente scomparve alla mia vista su quello sferragliante arnese, con indosso la mia camicia di lana scozzese.
Be', ahimè, lanciai un bacio d'addio alla camicia; in ogni caso aveva solo un valore sentimentale.
Attesi in quella Shelton odiata da Dio e da noi personalmente per lungo, lunghissimo tempo, per parecchie ore, mentre continuavo a pensare che si stava facendo notte; veramente si era appena al primo pomeriggio, ma era buio. Denver, Denver, come sarei mai arrivato a Denver?

Stavo proprio per rinunciare e decidere di sedermi a prendere un caffè quando si fermò una macchina quasi nuova, guidata da un giovanotto. Corsi come un pazzo.
«Dove va?» «A Denver.»
«Be', posso portarla su per un centinaio di chilometri in quella direzione.»
«Magnifico, magnifico, m'ha salvato la vita.»
«Facevo l'autostop anch'io, è per questo che prendo sempre su qualcuno.»
«Lo farei anch'io se avessi un'automobile.»
E cosí ci mettemmo a chiacchierare, ed egli mi raccontò della sua vita, che non era gran che interessante, e io cominciai a sonnecchiare, e mi svegliai proprio fuori della città di Gothenburg, dove lui mi lasciò.

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Stava per arrivare il piú lungo passaggio della mia vita, un autotreno con una piattaforma sul dietro e circa sei o sette ragazzi sdraiati sopra, perché gli autisti, due giovani agricoltori biondi del Minnesota, prendevano su ogni singola anima che trovavano per quella strada: la piú sorridente, allegra coppia di prestanti buon-temponi che si potesse mai desiderare di vedere, tutti e due con indosso camicie di cotone e tute, nient'altro; entrambi persone per bene dai polsi massicci, con larghi sorrisi di benvenuto per chiunque e per qualsiasi cosa incontrassero sul loro cammino.

Io corsi, chiesi: «C'è posto?». Loro dissero: «Certo, salti su, c'è posto per tutti».
Non ero ancora sulla piattaforma che l'autotreno partí rombando; barcollai, uno dei viaggiatori mi afferrò, e mi sedetti. Qualcuno fece passare una bottiglia di whisky d'infima qualità, che era alla fine. Ne buttai giú un lungo sorso nella esaltante, poetica, piovigginosa aria del Nebraska.
«Urrà; ecco che andiamo!» urlò un ragazzo con un berretto da baseball, e quelli lanciarono la macchina a piú di cento l'ora e superarono tutti lungo la strada.
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«...Questi tipi non si fermano mai. Di quando in quando bisogna urlare per fare una pisciata, altrimenti ti tocca farla a mezz'aria, e aggràppati, fratello, aggràppati.»
Guardai la compagnia.
C'erano due giovani agricoltori del Nord Dakota con berretti rossi da baseball, ch'è il copricapo tipico dei giovani contadini del Nord Dakota, i quali erano diretti verso i raccolti; avevano avuto dai loro vecchi il permesso di andar via da casa per un'estate.

C'erano due ragazzi di città che venivano da Columbus, nell'Ohio, giocatori nella squadra di calcio del loro liceo, che masticavano gomma, ammiccavano, cantavano nella brezza, e dissero che facevano l'autostop per tutti gli Stati Uniti durante l'estate. «Andiamo a Los Angeles!» urlarono.
«Che ci andate a fare?»
«Diavolo, non lo sappiamo. Che importa?
»

Poi c'era un tipo alto e magro con uno sguardo subdolo. «Di dove sei?» chiesi. Stavo sdraiato accanto a lui sulla piattaforma; non si poteva star seduti senza venir sbalzati fuori, non c'era una sponda. E quello si voltò lentamente verso di me, apri la bocca, e disse: «Mon-ta-na».

Infine c'erano Gene del Mississippi e il suo protetto. Gene del Mississippi era un tipo piccolo e bruno che viaggiava per il paese sui treni merci, un vagabondo di trent'anni ma con un'espressione da ragazzo, cosí che non si poteva dire esattamente che età avesse. E sedeva sulle tavole a gambe incrociate, guardando verso i campi senza dire una parola per centinaia di chilometri, e finalmente a un certo punto si volse verso di me e chiese: «Dov'è diretto, lei?». Io dissi a Denver.
«Ho una sorella laggiú ma non la vedo da parecchi e parecchi anni.»
Il suo linguaggio era melodioso e lento. Era un uomo paziente.
Il suo protetto era un ragazzo di sedici anni alto e biondo anche lui con stracci da vagabondo; cioè, indossavano vecchi vestiti ch'erano diventati neri per la fuliggine delle ferrovie e il sudiciume dei carri ferroviari e a furia di dormire per terra.
Il ragazzo biondo era silenzioso anche lui e pareva che fuggisse da qualcosa, ebbi l'impressione che si trattasse della polizia, dal modo come guardava dritto davanti a sé e si bagnava le labbra immerso in gravi pensieri.
Lo Smilzo del Montana parlava con loro di tanto in tanto con un sorriso sardonico e insinuante. Quelli non gli davano retta per niente.
Lo Smilzo era tutto un'allusione. Avevo paura del sottile ghigno idiota che quello ti apriva dritto in faccia e manteneva fisso come un mezzo *********.
«Hai soldi?» mi chiese.
«Diavolo, no, forse abbastanza per un mezzo litro di whisky finché arrivo a Denver. E tu ce n'hai?»
«So dove posso prenderli.» «Dove?»

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Il viaggio

Parole e musica di Claudio Chieffo
aprile 1977
a tutti per ricominciare

Fammi camminare ancora, ho perso tanto tempo
e non credevo che fosse così questo viaggio.
Ho incontrato per strada uomini con due facce
che volevan rubarmi la voglia e il coraggio.

Non ho più né padre né madre e non son meglio di loro
e i bambini già grandi ci guardano e chiedono un segno.


Quando prendemmo il mare ero felice davvero,
Ti svelai tutto quello che Tu già sapevi:
la mia vita di prima, la voglia di cambiare
e anche il nome di lei che tenevo segreto.

Tu ascoltavi tutti parlare, poi ci parlasti di Te,
di quel mondo lontano lontano lontano, ma vero.


Poi caddi nel tranello dell'odio e del potere
e credevo di essere fuori dal gioco
e credevo di essere fuori dal gioco.

Ed ecco la città, con le sue mura d'oro,
le sentinelle sulle torri, fiorita d'alberi e giardini:
io non l'avevo vista mai, eppure c'ero nato
ed era quella la città dove sarei tornato.

Così dentro la notte lasciai la compagnia:
non potevo più essere uno di loro,
non potevo più essere uno di loro.

Il sole del mattino mi trovò sulla strada
a rincorrere il tempo che avevo perduto:
ho attraversato i monti, ho attraversato il mare
e ora voglio con Te continuare il mio viaggio.

Io Ti cerco in tutte le case, a tutti parlo di Te
e quel mondo lontano lontano ora è sempre più vero!

                         Claudio Chieffo- Il viaggio

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Hai soldi?» mi chiese.
«Diavolo, no, forse abbastanza per un mezzo litro di whisky finché arrivo a Denver. E tu ce n'hai?»
«So dove posso prenderli.» «Dove?»

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«Dovunque. Si può sempre seguire un uomo in un viale, no?» «Già, credo di sí.»
«Non mi faccio certo scrupolo di questo quando ho davvero bisogno di qualche scudo. ...

Fui contento quando i due giovani agricoltori del Minnesota padroni dell'autotreno decisero di fermarsi a North Platte per mangiare; volevo osservarli bene.
Essi uscirono dalla cabina e sorrisero a tutti noi.
«Sosta per la pisciata!» disse uno.
«Ora di mangiare!» disse l'altro.
Ma erano gli unici della comitiva che avessero denaro per comprar da mangiare.
Noi arrancammo tutti dietro a loro in un ristorante gestito da un mucchio di donne, e ci sedemmo davanti a delle polpette e del caffè mentre loro facevano sparire dei piatti enormi proprio come se si trovassero nella cucina della madre loro.
Erano fratelli; stavano trasportando macchinari agricoli da Los Angeles al Minnesota, guadagnandoci parecchio denaro. Cosí nel viaggio di ritorno a vuoto verso la Costa prendevano su tutti quelli che incontravano per strada.
L'avevano fatto ormai cinque volte; si stavano divertendo un mondo.
Erano entusiasti di tutto.
Non smisero mai di sorridere.
Cercai di parlare con loro - una specie di maldestra manovra, da parte mia, per farmi amici i padroni del vapore - e le uniche risposte che ne ebbi furono due smaglianti sorrisi e grandi denti bianchi usi a mangiar granoturco.

... io afferrai l'occasione di andare a comprare una bottiglia di whisky per tenermi caldo nella fredda aria smossa della notte. Loro sorrisero quando glielo dissi. «Vada pure, faccia presto.»
«Potrete prenderne qualche sorso anche voi» li rassicurai. «Oh, no, noi non beviamo mai, vada pure.»
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... Uomini alti, arcigni, ci guardavano passare da edifici con le facciate posticce; sul corso si allineavano case quadrate come scatole. Dietro ogni strada malinconica c'erano immense visuali delle pianure.
Sentii che nell'aria di North Platte c'era qualcosa di diverso, ma non sapevo che cosa fosse. In cinque minuti lo capii. Tornammo alla macchina e partimmo in un rombo.
Presto si fece buio. Bevemmo tutti un sorso e d'un tratto guardai, e i poderi verdeggianti del Piatte cominciarono a sparire e al loro posto, cosí lontano da non poterne vedere la fine, apparvero lunghe piatte distese di sabbia e di salvia. Ne fui sbalordito.
«Che diavolo è questo?» gridai allo Smilzo.
«Questo è il principio degli spazi aperti, ragazzo. ...

I camionisti davanti si erano cambiati di posto; il fratello subentrato alla guida lanciava l'autotreno a tutta birra. Anche la strada cambiò: rialzata nel centro, con i margini spioventi e a entrambi i lati un fossato profondo piú di un metro, cosí che l'autocarro rimbalzava e traballava da un lato all'altro della strada -per fortuna solo quando non sopraggiungevano altre macchine dalla parte opposta - e io pensai che avremmo fatto tutti un salto mortale.
Ma quelli erano guidatori formidabili.
Come si lasciò indietro, quell'autotreno, il saliente del Nebraska: ... praticamente in vista di Denver che era a poche centinaia di chilometri verso sud-ovest. Urlai dalla gioia. Ci passammo la bottiglia. Spuntarono le grandi stelle scintillanti, le colline di sabbia indietreggianti nella lontananza si fecero indistinte. Mi sentii come una freccia capace di saettare fino in fondo alla meta.

E ad un tratto Gene del Mississippi si volse verso di me uscendo dalla sua paziente fantasticheria a gambe incrociate, e apri la bocca, e mi si accostò, e disse: «Queste pianure mi fanno venire in mente il Texas».
«È del Texas, lei?»
«Nossignore, sono di Green-veli, del Mozz-sippi.» E fu proprio cosí che disse.
«Quel ragazzo di dov'è?»
«S'è messo in certi pasticci laggiú nel Mississippi, cosí mi sono offerto di aiutarlo a tirarsene fuori. Quel ragazzo non è mai andato in giro da solo. lo mi occupo di lui meglio che posso, è solo un bambino.» Quantunque Gene fosse un bianco c'era in lui un po' della saggezza e della stanchezza dei vecchi negri, e qualcosa che assomigliava assai a Elmer Hassel, il tossicomane di New York, ma un Hassel viaggiatore, un epico Hassel girovago, che passava e
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ripassava ogni anno attraverso il continente, a sud nell'inverno e a nord nell'estate, e solo perché non c'era posto dov'egli potesse restare senza stancarsene, e perché non aveva un luogo dove andare ma doveva andare in tutti i luoghi, continuando a vagare sotto le stelle, generalmente quelle del West.

...
Nei miei piú giovani anni ero stato in mare con un amico alto e angoloso della Louisiana, detto Hazard lo Spilungone, William Holmes Hazard, che era vagabondo per vocazione. Da piccolo aveva visto un vagabondo andare da sua madre e chiederle un pezzo di torta, e lei glielo aveva dato, e quando il vagabondo s'era allontanato giú per la strada il bambino aveva detto:
"Ma', che fa quell'uomo?".
-"Come, è un vagabondo."
"Ma', anch'io voglio diventare vagabondo un giorno."
-"Chiudi il becco, non è cosa che si confà agli Hazard."
Ma lui non dimenticò mai quel giorno, e quando crebbe, dopo un breve periodo trascorso giocando a calcio all'Università Statale della Louisiana, diventò davvero un vagabondo.

...presi un altro sorso, e adesso cominciavo a sentirmi abbastanza bene.
Ogni sorsata veniva spazzata via dal vento in corsa dell'autotreno aperto, liberata dai suoi cattivi effetti, mentre quelli buoni mi sprofondavano nello stomaco. «Cheyenne, sto arrivando!» cantai. «Denver, preparati ad accogliere il tuo ragazzo.»

Lo Smilzo del Montana si voltò verso di me, indicò le mie scarpe, e commentò: «Vuoi scommettere che se pianti in terra quegli affari lí, ne cresce qualcosa?» - naturalmente senza accennare a un sorriso e gli altri ragazzi lo sentirono e risero.
Ed erano infatti le piú ridicole scarpe d'America; me l'ero portate dietro proprio perché non volevo che i piedi mi sudassero sulla strada rovente e, tranne che per la pioggia sul Bear Mountain, diedero prova di essere le migliori scarpe possibili per il mio viaggio. Cosí risi con loro.
E adesso le scarpe erano parecchio malandate con brandelli di cuoio che spuntavano fuori come pezzi di ananas fresco e gli alluci che facevano capolino. Be', mandammo giú un altro goccio e ridemmo.

Filavamo come in sogno attraverso piccoli paesi posti sui crocevia balzanti dall'oscurità, e sorpassavamo lunghe file di braccianti e di cow-boy che oziavano nella notte. Quelli ci guardavano passare per seguirci con lo sguardo, e li vedevamo picchiarsi le cosce nel buio che tornava a invadere l'altra parte del paese: eravamo una compagnia buffa a vedersi.

C'era una quantità di uomini in quella regione in quel periodo dell'anno; era il tempo del raccolto. I ragazzi del Dakota erano irrequieti. «Mi sa che appena ci fermiamo per pissare scendiamo; pare che qua attorno ci sia un sacco di lavoro.»
«Non dovete fare altro che spostarvi piú a Nord quando qui è finito» consigliò lo Smilzo del Montana «e seguire i raccolti finché non arrivate in Canada.» I ragazzi annuirono distrattamente; non prendevano gran che sul serio i suoi consigli.
Nel frattempo il giovane fuggitivo biondo sedeva sempre allo stesso modo; di quando in quando Gene usciva dalla sua buddistica contemplazione per chinarsi a guardare le scorrenti piane buie e diceva con tenerezza qualcosa all'orecchio del ragazzo. Questi annuiva. Gene si interessava di lui, del suo umore e delle sue
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paure. Io mi chiedevo dove diavolo sarebbero andati e che cosa avrebbero fatto.
Non avevano sigarette. Finii per distribuire loro tutto il mio pacchetto, tanto mi piacevano. Erano grati e simpatici. Non chiedevano mai, e io continuavo a offrire.
Lo Smilzo del Montana aveva il suo pacchetto ma non lo passava mai.

Filammo attraverso un altro paese su un crocevia, superammo un'altra fila di uomini alti e dinoccolati in pantaloni di tela blu, raccolti nella debole luce come falene nel deserto, e di nuovo rientrammo nel buio terribile, e le stelle sopra di noi erano pure e luminose a causa dell'aria che si faceva sempre piú sottile man mano che salivamo su per il fianco in rilievo dell'altopiano occidentale, in ragione di circa venti centimetri il chilometro, cosí dicono, e non un albero che nascondesse le stelle basse in alcun punto dell'orizzonte.
E una volta, mentre passavamo di volata, vidi una malinconica mucca dal muso bianco nella salvia accanto alla strada.
Era come viaggiare su un treno, altrettanto sicuro e altrettanto diretto.

Dopo un po' arrivammo in un paese, rallentammo, e lo Smilzo del Montana disse:
«Ah, ora di pissare», ma quelli del Minnesota non si fermarono e attraversarono l'abitato direttamente.
«Diavolo, devo scendere» disse lo Smilzo.
«Falla fuori da un lato» suggerí qualcuno.
«Be', farò cosí» disse lui, e lentamente, mentre stavamo tutti a guardare, si trascinò sul sedere, centimetro per centimetro, fino al di dietro della piattaforma, tenendosi meglio che poteva, finché le gambe non gli penzolarono in fuori.
Qualcuno bussò al finestrino della cabina per richiamare l'attenzione dei due fratelli, i quali si voltarono, sfoggiando i loro larghi sorrisi. E proprio mentre lo Smilzo si accingeva ad eseguire, già instabile com'era, quelli cominciarono a zigzagare con l'autotreno a centodieci l'ora. Lui cadde all'indietro per un momento; vedemmo nell'aria uno zampillo come quello di una balena; lui si sforzò di rimettersi seduto. Quelli fecero sbandare l'autotreno. Bam! lui cadde giú su un fianco, orinandosi addosso. Potevamo sentirlo imprecare debolmente in mezzo al fracasso, come il lamento di un uomo lontano oltre le colline. «Maledizione... maledizione...» Non si accorse affatto che questo glielo facevamo apposta; stava semplicemente lottando, tenace come Giobbe.
Quando ebbe finito, come Dio volle, era zuppo da strizzare, e ora gli toccò tornare piano piano al suo posto, tenendosi in equilibrio, con uno sguardo tutto vergognoso, mentre tutti, fuorché il triste ragazzo biondo, ridevano, e i due del Minnesota si sganasciavano nella cabina.
Io gli porsi la bottiglia perché si consolasse.

...Arrivammo all'improvviso nella città di Ogallala, e qua i due
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della cabina gridarono: «Sosta per la pisciata!» e con enorme soddisfazione. Lo Smilzo rimase imbronciato accanto all'autotreno, rimpiangendo l'occasione perduta. I due ragazzi del Dakota salutarono tutti poiché contavano di cominciare a fare i braccianti in quel posto. Li guardammo scomparire nella notte verso le baracche alla periferia della città dove le luci erano accese, e dove un guardiano notturno in blue-jeans disse che avrebbero trovato gli uomini addetti alle assunzioni.

Dovevo comprare altre sigarette. Gene e il ragazzo biondo mi seguirono per sgranchire le gambe.
Entrai nel luogo piú inverosimile del mondo, una specie di solitario bar analcoolico delle praterie per i minorenni e le minorenni locali. Alcuni di loro stavano ballando alla musica di un giradischi a gettoni.
Ci fu un'interruzione quando entrammo. Gene e il biondino se ne stettero lí, senza guardare nessuno; tutto quel che volevano era le sigarette. C'erano anche alcune graziose ragazze. E una di esse lanciò certe occhiate al biondino, ma lui non la vide nemmeno, e anche se l'avesse vista non gliene sarebbe importato niente, tanto era triste e sperduto.
Comprai un pacchetto per ciascuno di loro; mi ringraziarono.

L'autotreno era pronto a partire. Si stava avvicinando ormai la mezzanotte, e faceva freddo.
Gene, che aveva girato per il continente piú volte di quel che potesse contare sulle dita delle mani e su quelle dei piedi, disse che ora la miglior cosa da fare per tutti noi era di rannicchiarci vicini sotto il grosso telone catramato se non volevamo rimanere assiderati. In questo modo, e con il resto della bottiglia, ci tenemmo caldi mentre l'aria si faceva gelata e ci pizzicava le orecchie.

Pareva che le stelle diventassero piú luminose man mano che salivamo su per gli altipiani. Eravamo nel Wyoming, adesso. Steso sulla schiena, rimiravo là sopra il magnifico firmamento, compiacendomi della velocità con cui viaggiavo, di quanto lontano ero giunto, alla fine, dal triste Bear Mountain, e tutto elettrizzato al pensiero di quel che mi aspettava a Denver: qualsiasi, qualsiasi cosa fosse.

E Gene del Mississippi cominciò a cantare una canzone. La cantò con voce melodiosa, tranquilla, con un accento del Mississippi, ed era semplice, solo cosí:
"La mia ragazza ha solo sedici anni - è dolce e piccolina - per quanto tu t'affanni - non puoi trovarne una piú carina", ripetendolo insieme ad altre strofe messe a caso, tutte che dicevano quanto egli fosse andato lontano e come desiderasse tornare da colei che purtroppo aveva perduta.
Io dissi: «Gene, non ho mai sentito una canzone piú bella».
«È la piú dolce che conosca» rispose lui con un sorriso. «Spero che lei arrivi dove sta andando, e che sia felice quando arriverà.»
«Io me la cavo sempre e tiro avanti in un modo o nell'altro.» ...
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paoloDòCavaj



Interrompo la pubblicazione di alcune pagine di Kerouac invitandovi ad acquistare l'edizione ora presente negli Oscar Mondadori.

Quello che mi ha colpito di questo Diario: è il significato particolare che l'autore da al viaggio.
La rilevanza non è come, autostop, auto, bus, treno etc) ne dove, ma sopratutto perchè.
Vedrete che è un continuo viaggiare per incontrare o re-incontrare persone.

Il prossimo libro che vi proporro, pressochè introvabile salvo dal Bruno e in qualche biblioteca, è:

Jean-Claude Baudot  & Jaques Seguela
GIRO DEL MONDO IN AUTOMOBILE

dove la nostra amata 2cv la fa  da grande

paoloDòCavaj

                            

Oggi ho telefonato all'editore italiano, il libro non è più di loro competenza e non intendono ristamparlo.

L'avevo letto la prima volta quando ero il libreria, negli anni 70, e l'ho "ritrovato" negli scaffali di Bruno fra la sua ampia documentazione.
Ho passato la notte nel suo garage prima a sfogliarlo, poi a leggerlo per poi appassionarmene.
In Italia si trova con estrema fortuna: dalla Francia con Amazon me ne sono fatte venire due copie da librerie antiquarie, una per Ludo, che conosce il francese e una per me.
Poi con il servizio interbibliotecario la Civica di Verona ne ha trovato una copia alla Biblioteca Bradense di Milano.
Pian piano l'ho scansionato e vi propongo da subito le osservazioni finale degli autori.
Le considerazioni più importanti saranno quelle vostre, le mie me le sono vissute forti e intense.

Bene, Viaggiare e viaggiare con una 2CV, intorno al mondo, dal tredici ottobre 1958
No, anzi, partiamo dalla fine

CAPITOLO 22
... la terra è rotonda

IL VIAGGIO È TERMINATO. SIAMO RIMASTI assenti dalla Francia per più di un anno, abbiamo attraversato otto deserti, cinquanta nazioni, trascorso cinquanta notti all'aperto, siamo rimasti per duemiladuecentoquarantasette ore al volante. In tutto abbiamo percorso centomila chilometri e la nostra 2CV é stata la prima automobile francese che ha fatto il giro del mondo.

Forse il lettore penserà che si sia partiti per rinascere ogni mattina con il mondo, che abbiamo seguito percorsi secondo la nostra fantasia, fermandoci in certe città e dimenticando il calendario solo perché in esse vi erano le rose, i nostri fiori preferiti.
Forse si crederà anche che sia sufficiente essere giovani per essere amati e che basti essere sinceri perché ogni porta si spalanchi davanti a voi.

Quando mai le porte si aprono?
Avete mai provato a trovarvi nelle vicinanze di una bella casa, ad entrarvi solo per il piacere e la soddisfazione di dire a colui che vi abita: - Buongiorno, signore. Sono venuto a trovarla perché la sua casa é molto bella ed ho inoltre desiderio di conoscerla.
Ha senso comune tutto questo?

L'avventura, credetemi, bisogna organizzarla.
Occorre un itinerario ben studiato, e un bilancio esatto.
È necessario fare un dettagliato piano di lavoro e dell'impiego del tempo.
Ogni giorno ha inizio con due ore di ufficio: adempimento delle necessarie formalità amministrative, redazione del giornale di bordo, corrispondenza, articoli per la stampa.
Durante il nostro viaggio abbiamo scritto milleottocentocinquanta lettere.

Non si parte mai soli.
Dal primo giorno bisogna già pensare a onorare le proprie credenziali e a ringraziare com'è possibile coloro che ci hanno fornito le possibilità di penetrare dove era nostro desiderio arrivare.

Inoltre bisogna fare continui calcoli.
Pur disponendo di una macchina economica come la 2CV, le spese complessive per chilometro sono state di 0.16 nuovi franchi in Africa, 0.05 nell'America del Sud, 0.35 negli Stati Uniti e di 0.09 in Asia. In media 0.11 franchi che dovranno essere moltiplicati per cinque per i viaggi in mare.
Abbiamo constatato che il paese più caro é l'America del Nord e cioè gli Stati Uniti, dove abbiamo speso una media di 187 nuovi franchi al giorno: quello più economico il Pakistan, dove ce la siamo cavata con 28 franchi.
In totale, comprese le spese per l'acquisto della vettura e del materiale, questo giro del mondo ci é costato una media di 200 nuovi franchi al giorno e per quattrocento giorni, dormendo, bene inteso, sovente all'aperto e facendo colazione una volta ogni ventiquattr'ore.

Se ogni esploratore deve portare con sé la borsa dell'uomo d'affari, é però necessario che si munisca anche del sapone della padrona di casa: deve fare un'ora di bucato al
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giorno, risciacquare i piatti ed imparare a far da mangiare.

Poi bisogna prendere cura della vettura, darle i viveri necessari, e stabilire un piano di marcia: da cinque a sette ore di cammino; cioè a dire circa duecentocinquanta chilometri di percorso, sapendo che se si è costretti a fermarsi un giorno, in quello successivo sarà necessario percorrere una doppia distanza e così via.

Questo probabilmente potrebbe definirsi avventura, questa lotta contro se stessi e le lunghe piste e le strade, questa ostinazione a percorrere la propria via per poter arrivare in qualunque modo.


E forse è questa avventura che ci ha tanto legati alla nostra 2CV.
Con essa abbiamo vinto il vento, il gelo, la polvere, la roccia, l'acqua, il fango e la foresta tropicale.
Questa piccola vettura francese al suo primo giro del mondo non ci ha mai abbandonato un istante.
È stata proprio essa che molte volte ha contribuito a tenere alto il nostro spirito e il morale con il fedele ronron del suo motore.
Robustissima e coraggiosa, ha sfidato le montagne coperte di ghiaccio e le foreste impenetrabili ha vinto le tempeste di sabbia e le inondazioni.
Oggi che, grazie alle sue brillanti prestazioni, siamo giunti alla fine del nostro viaggio, possiamo affermare parodiando Guillaumet che ciò che la nostra vetturetta ha fatto, non sarebbe stato possibile ad alcuno al mondo.


Una sbarretta e cinque zeri, 100.000 chilometri, sembrano poca cosa. Invece sono moltissimi.
Sono così lunghi che all'alba di ogni giorno non ce la sentivamo più di per correre duecentocinquanta chilometri e desideravamo di fermarci per poter infine veder qualcosa con occhi sicuri e tranquilli.
A forza di tenere gli occhi spalancati si diventa miopi e noi abbiamo corso questo rischio.
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Nessuno ci crederebbe se dicessimo che ci si abitua a tutto, che, ad un certo punto, anche l'avventura diventa un fatto di normale amministrazione. Fare il giro della terra non significa forse girarle intorno?
Tante sono le città che abbiamo visitate che talvolta abbiamo finito per non saper più se attraversavamo quella che stavamo lasciando o l'altra che avremmo dovuto raggiungere.
Il mondo é vasto, ma anche piccolo. Per noi che le abbiamo attraversate molto rapidamente, nove capitali su dieci si assomigliano. In queste pagine abbiamo tentato di raccontare ciò che abbiamo visto, ma vogliamo subito dire che in moltissime occasioni siamo rimasti solo alla superficie delle cose.
Una nostra falsa assicurazione non trarrebbe in inganno nessuno: non si può avere la pretesa di vedere e capire una nazione in pochi giorni.
Avremmo potuto tenere la gioia della partenza chiusa nel nostro cuore, conservare per noi l'aria leggera e fresca della mattina, il riso che diventa canzone, l'odore, il profumo delle vacanze.

Avremmo potuto dimenticare ogni giorno ciò che era stato il giorno prima, ritrovare la giovinezza che si sperde a goccia a goccia.
Sarebbe forse stato necessario risvegliarci ogni volta con uno sguardo nuovo per vedere New York, Buenaventura, Lima, Angkor, e giudicarle non solo come una successione di città. L'entusiasmo va gustato fresco!
Non ci siamo stancati per nulla, anzi.
Ma quando si arriva in un posto é già troppo tardi e durante la strada si e perduto ciò che alla partenza ci si era proposti di andare a cercare.
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Può anche darsi che abbiamo intravvisto la bellezza, la scienza, la saggezza senza avere il tempo di riconoscerle. Può anche darsi che non ne abbiamo avute le occasioni e che l'ignoranza ci abbia talvolta paralizzati...
Non sapremo mai ciò che é passato a portata delle nostre mani, pronte per afferrare o ricevere: non sapremo quale vuoto del nostro spirito ci abbia impedito di sognare.

Talvolta abbiamo incontrato un paese felice come il Siam: ed abbiamo provato il desiderio di fermarci, di rimanere lì a vivere. Ma sempre, come automi, il dovere ci ha costretto a continuare.

Cosa abbiamo cercato?
Quale strano istinto migrativo ci ha sospinti a mettere contro noi e il sole un'ombra sempre più grande?
Quando un uomo fugge, che cosa fugge?
Crede che potrà perdersi?
Crede che potrà ritrovarsi?
Scrollando il vecchio paniere del mondo, scopriremo forse nel suo fondo la soluzione, il significato profondo del problema?

Compiere il giro della terra, al di là di tutto l'insieme delle meraviglie pittoresche descritte dalle agenzie di viaggi, vuol dire imparare a conoscere gli uomini che la popolano.
Ci si rende allora conto che gli esseri primitivi non sono sempre tali quali li credevamo e che, in ogni modo, si rappresenta sempre il selvaggio, per qualcuno.

Targui fraterno, gigante del Sahara; feroce Puchtu, nomade dell'Afganistan; silenzioso Inca, la cui nobile razza sdegna perfino di sapere che va morendo; prestigioso Sikh del Pengiab, dal sorriso smagliante di colui che sa di essere il più bell'esemplare umano del mondo... Tutti li abbiamo conosciuti, tutti ammirati.
Ci hanno insegnato che la vita quotidiana ferve sotto
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tutte le latitudini e che l'uomo é il più piccolo comun denominatore umano. Dappertutto, nel mondo intero, subisce il tempo che fa, ha a disposizione il tempo che passa.

Ovunque la donna - affascinante cinese, irritante americana, peruviana civettuola, gentile siamese - rappresenta la più bella conquista dell'uomo.
Ovunque, nonostante la diversità dei costumi, i problemi essenziali dell'esistenza restano gli stessi.
Su uno stesso livello di vita, gli interrogativi di tutti gli uomini sono i medesimi.

E dappertutto, in ogni paese, in ogni continente, quali che siano la civilizzazione, l'antichità della razza, la religione, le credenze, si ritrovano le stesse regole essenziali, necessarie e sufficienti alla sopravvivenza di una società, di cui sembrano rappresentare la condizione minima e massima, regole diversamente espresse o anche implicite, che definiscono una rigorosa morale fondamentale e si risolvono alla fin fine con i precetti del Decalogo, i Dieci Comandamenti.
Di più, non osiamo aggiungere: il mondo va così.
Sappiamo ormai che questo non significa d'altronde: noi siamo così.
Il nostro lungo viaggio ci ha insegnato che l'avventura é, in fin dei conti, interiore.




paoloDòCavaj

da:


"Salimmo nella boscaglia verso il Mali Vrh per tagliare su Caisole (Beli) seguendo un sentiero marcato di bianco-rosso  o giallo-senape.
Sentivamo l'orografia come lo stetoscopio di un medico sulla pancia di un paziente, e procedemmo senza sbagliare verso le lande pietrose che precedono il bosco di Tramontana.

Viaggiare in due o da soli è molto più sicuro che essere in tanti.
Non si rischia quello che Cesare chiama "Effetto lemming", rifacendosi ai roditori del Grande Nord che si spostano a migliaia verso direzioni talvolta suicide.
Significa che un gruppo di gitanti sbaglia più facilmente di un viandante solitario, perché nel gruppo tutti tendono a fidarsi degli altri e stare meno all'erta."

Che valga anche per le colonne nei raduni e in quelle dei grandi viaggi verso il mondiale? (nonso)


paoloDòCavaj

                                      

Un volume con coordinate GPS da abbinare oggi alla CITROMAP, è da sempre:

AGRIPleinAir - La guida alla vacanza rurale in camper, caravan e tenda, in edicola allegato a Plein Air n.489 aprile 2013.

Da anni ne constato le indicazioni attendibili e molto vicine all'AbitarViaggiando anche diffuso fra alcuni di noi.

E chissà che non ci ritroviamo anche li cazzeggiando per l'Italia.

Lo consiglio anche a chi cerca dei luoghi congrui a uno degli spiriti propri del mondo 2CV, per incontrare amici senza necessariamente pensare ad organizzare raduni.

Sono aree di sosta che offrono tutti i servizi e lasciano tutto il tempo all'incontro e al piacere di stare con gli amici

(felice) paolo

Paolon

FORUM:ormai parte della "Nostra Storia"
Tenerlo in vita, scrivere, collaborare, è anche dire"grazie" a chi lo ha progettato, realizzato, migliorato, difeso in tutti questi anni

Paolon


Ho riproposto sopra LA STRADA di Gaber perchè ritrovo lo stesso pensiero nel libro che sto leggendo:


 

                         

                     



                                 
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Paolon




                                               

"Si può viaggiare in tantissimi modi: c'è chi viaggia sempre e non parte mai;
c'è chi parte e va lontano senza bisogno di viaggiare;
c'è chi parte e viaggia
e c'è chi non parte e non viaggia."

"Viaggiare e non partire" è dedicato a tutti coloro che, in qualche modo, viaggiano, fisicamente o solo mentalmente. Consigli, riflessioni, massime, interviste a grandi viaggiatori, come Tiziano Terzani o Fosco Maraini, ma anche esperienze vissute dall'autore, viaggiatore attento, curioso e instancabile.

Non è la classica avventura da viaggio ma un continuo invito al viaggiare per imparare, crescere, conoscere e capire. Semplicemente ingegnoso e affascinante. Fa venire voglia di partire verso una destinazione sconosciuta e mai tenuta in considerazione.

Da un autore come Bocconi - allievo di Assaggioli - mi aspettavo forse un "Anatomia dell'irrequietezza" italiano... comunque un utile stimolo per leggere i libri degli altri grandi viaggiatori.

Le prime 3 pagine

PREPARATIVI PER LA PARTENZA

Caminante no hay camino,
el camino se hace al andar.

Antonio Machado

« Non si sta bene che altrove » ha detto qualcuno: è un programma, una dichiarazione di fede o di sfiducia. Da sempre anime inquiete trovano nel viaggio un momento in cui la vita vibra a frequenze inconsuete. L'inaspettato, lo sperdersi, ci fa sentire più vivi, attiva i sensi, sconquassa i pregiudizi.
Lo spaesamento rompe gli schemi mentali in cui incaselliamo il mondo.

Nell'Ottocento il Grand Tour in Europa era una tappa fondamentale nell'educazione del giovane gentiluomo.

Si incontrano nuovi odori, nuovi sapori, cambiano le regole del gioco.
Dobbiamo imparare molto, nulla è più scontato, neppure prendere un autobus o ordinare un piatto al ristorante.
Nessuno ci conosce, nessuno connette il nostro volto a una storia, a un nome.
La vecchia identità non funziona più, veniamo visti e guardati in modo nuovo, vediamo e guardiamo in modo nuovo.

Può essere un momento per cercare un io più vero, più profondo, oltre i trucchi e le convenzioni.
Oppure possiamo provare trucchi diversi, altre maschere, e in una libertà eccitante ben al di là di ogni carnevale esplorare altre vite possibili.

Certo, sommi filosofi hanno mostrato i limiti del viaggio, dell'andare via come coazione a ripetere, come necessità senza libertà.
Dice Lao Tzu nel Tao Te King:
« Senza uscire dalla porta, conoscere il mondo!
Senza guardare dalla finestra, vedere la Via del cielo!
Più lontano si va, meno si conosce.
Perciò il Santo conosce senza viaggiare;
egli nomina le cose senza vederle;
egli compie senza azione ».


C'è del vero, e in questo libro, che a suo modo è un viaggio nel viaggiare, rappresenterò anche questo punto di vista.
Del resto è chiaro:
c'è chi viaggia sempre e non parte mai, avvolto in un bozzolo di pregiudizi.
C'è chi parte e va lontano senza bisogno di viaggiare.
C'è chi parte e viaggia
e c'è chi non parte e non viaggia.

Forse il punto non è se stare a casa o partire, però lo dico subito: il mio cuore è col viaggiatore, non sono né così saggio né così malato da star bene solo dove sono nato, dove vivo.

Queste stesse parole le scrivo avendo davanti agli occhi una laguna esotica, quella di Banda Neira, nelle isole delle spezie, le Molucche.
Quelle che Colombo cercava, per arrivare alla fonte della preziosa noce moscata portata dai mercanti arabi in Europa a caro prezzo.
Colombo sbagliò strada e finì come sappiamo, con la « scoperta » dell'America.

Credo che questo succeda spesso al viaggiatore: cerca una cosa e ne trova un'altra.
È un bene? È un male?


FORUM:ormai parte della "Nostra Storia"
Tenerlo in vita, scrivere, collaborare, è anche dire"grazie" a chi lo ha progettato, realizzato, migliorato, difeso in tutti questi anni

Paolon


Paola Mastrocola
NON SO NIENTE DI TE
Einaudi Editore

                                                   

Altri pensieri sul "Viaggiare (e non solo) lento" me le offre questa lettura, una volta arrivato a pagina 232.

Aveva bisogno d'altro tempo. Non tantissimo, un po': il tempo di quel viaggio. Che aveva deciso di fare non in aereo.
Non voleva piú aver fretta, andar veloce. L'aereo ti sposta, ti cambia di luogo che manco te ne accorgi, non ti dà modo di capire, di renderti conto, di sentirla dentro di te, la vita che ti passa.
Lui voleva accorgersene, invece, della vita.

Erano troppo belle le ore lunghe. Non saper che fare, mettersi su un sedile, distendere le gambe, chiudere gli occhi. O tenerli aperti a guardare la gente, leggere, camminare un po', andare fuori, fumarsi una sigaretta, prendere qualcosa al bar. Le sale d'attesa. La bellezza estenuante delle sale d'attesa.
Oh, se la vita fosse questo: una gigantesca sala dove aspetti, e intanto giri, e fai, e pensi. E il tempo passa, e tu te lo prendi.

Fil (nome del protagonista) se l'era ripreso, se l'era guadagnato, e ora lo voleva sentire, il tempo che trascorre, sentirlo mentre trascorre, coglierlo sul fatto, minuto per minuto.
Voleva la lentezza, adesso.
Ci aveva messo ventotto anni, la sua vita intera, ad accorgersi di che pasta era fatto. Ma ci era arrivato.
Fino al gran finale delle pecore nel college.
Da lí, tutto era diventato chiaro. Gli era diventata chiara la sua vita, la vita futura tutta insieme, fino alla fine dei suoi giorni.
Allora aveva fatto quel che finalmente, senza piú fingere, poteva fare: era partito. Aveva preso treni, autobus, battelli. Ed ora era su quel piccolo traghetto quasi vuoto, all'alba, in mezzo a un mare verde scuro, teso, metallico.

Quando glielo avevano sottratto, il tempo? Chi era stato? Perché non aveva protestato? Dov'era, lui, quando gli facevano questo? Davvero possono passare anni, può passa re tutta la giovinezza, la nostra vita intera addirittura, senza che ci rendiamo conto? Può succedere, una cosa simile? ...
Pagina 231

La pagina dopo è una continua riflessione sui tempi e i ritmi dei nuovi media

Capitolo secondo
SCOGLI

L'uomo è un animale sociale. Cosí è stato autorevolmente detto, e non vi sono ragioni per sostenere il contrario.
A quei tempi era piú vero che mai: l'umanità s'era convinta che la fitta rete di relazioni interpersonali fosse il fulcro dell'esistenza stessa sulla Terra, che non ci potesse essere miglior modo di vivere che star connessi l'un l'altro sempre, a tutte le ore del giorno, tutti i giorni dell'anno, nonostante le distanze geografiche.

Si viveva per connettersi e ci si connetteva per vivere, in un certo senso. Le gigantesche, sorprendenti e velocissime innovazioni tecnologiche che allora, nell'arco di pochi anni, avevano completamente trasformato la vita quotidiana della stragrande maggioranza delle persone, avevano notevolmente contribuito ad alimentare tale convinzione.

Era in atto, insomma, una vera e propria ridda esagitata di frequentazioni elettroniche tutto in giro per il pianeta: contatti, dialoghi, messaggi, post, link, tweet. Un incessante chiacchierio virtuale che produceva esaltati entusiasmi e prendeva ad ognuno, si può ben capire, una non indifferente quantità di tempo giornaliero. Si navigava in rete, e poco altro. Tutti, comunque e in ogni dove: al computer o al cellulare, in casa a in ufficio o all'aperto, poco importava.

La conseguenza fu che vennero messi un po' da parte quei mondi mentali, quei puri luoghi dello spirito, della riflessione ovvero della speculazione squisitamente teoretica, che da sempre traggono giovamento proprio da ciò che è opposto all'orgia di relazioni, e cioè dalla solitudine e dall'assenza d'ogni contatto o distrazione che possa interrompere la concentrazione.
Mondi mentali che, essendo sempre esistiti, continuarono anche allora a esistere, ma furono un pochino accantonati, relegati in certi spazietti esigui, marginali e bui.

Permanevano codesti mondi, ebbene sí, affermando in tal maniera una loro tenace eternità, ma ridotti, e appartati: sembravano scogli, per cosí dire. Piccoli isolotti scogliosi.
Per dirla in altro modo, chi amava stare solo, isolato e fermo, continuò a farlo: come uno scoglio, appunto, in mezzo alla capricciosa variabilità del mare, ora impetuoso ora calmo.
Uno di questi scogli era Fil.
Ed essere scoglio in tempi in cui gli altri erano onde tumultuose non era facile.


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tiotio

...Ed essere scoglio in tempi in cui gli altri erano onde tumultuose non era facile.

verissimo, però ci si può sempre provare, comunque il senso del tempo che scorre senza che ce ne accorgiamo, soprattutto gli anni successivi alla nostra giovinezza, è ineluttabile quant'è vero che dobbiamo invecchiare, non sempre ci viene data la possibilità di "cogliere" i migliori frutti che la vita può dare, ma ci perdiamo nell'ordinarietá e nella monotonia della quotidianità, pur cercando e qualche volta anche riuscendo a romperla.
non è solo comunque questione di possibilità, entra ovviamente in gioco anche la volontà, la caparbietà e la tenacia nel perseguire determinati obiettivi, o più ancora di stravolgere la nostra vita, che però mio malgrado continuo a considerare un lusso per pochi.
vabè grazie per lo spunto, ci rifletterò ancora, ancora, ancora...

Paolon

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Paolon

#22
            

Il traslocco Ufficio- Citrogarage troppo spesso si ferma, ritrovando oggetti, libri, foto dimenticate.
Oggi  questo Poster: mi ricorda una splendida vacanza nel 74 sui Pirenei francesi.

Quella scritta in fondo ha ancora la capacità di farmi pensare, forse di darmi quasi turbamento  .....


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Paolon



..e al mio amico citronico, pensando ai suoi chilometri in 2CV, fatti, anche in quest'autunno,  per amore.....

                         
                               The Long & Winding Road - Beatles

e a tutti quelli che ne inseguono uno

    (felice)
                   
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Paolon



Quando incominciavi a parlarmi del tuo ritorno in America, ripresi in mano L'America di Kafka: mi ricordavo di aver letto alcune pagine che mi riportavano alla tua ricerca, di te in un nuovo Tuo lavoro, della tua passione.

Dovevo dartelo l'altro giorno quando sei venuto di corsa a salutarci: ora resta qua in attesa di rivederti, prima o poi.
Ti mando, oggi, solo poche righe, che ho scelto per te

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FRANZ KAFKA                                                                                           
AMERICA

.... E mattina e sera, e nei sogni della notte, in questa strada si svolgeva un traffico continuo che visto dall'alto rappresentava un turbine, che si riformava ininterrottamente, di figure umane contorte e di veicoli d'ogni genere; da questa confusione si levava un nuovo turbine piú complicato e piú sconvolto, formato di rumori, polvere e odori, e tutto questo era incalzato e compenetrato da una luce potente, che di continuo era come dispersa e portata via dalla massa degli oggetti e poi in fretta nuovamente raccolta, sicché all'occhio confuso appariva addirittura corporea come se sopra alla strada venisse ogni momento spezzata con tutta la forza una lastra di vetro che ricopriva ogni cosa.

Lo zio, prudente com'era in tutte le sue cose, consigliò a Karl di non occuparsi seriamente di nulla per il momento.
Egli doveva bensí guardare e studiare tutto, ma stare attento a non farsi prendere da niente.
Le prime giornate di un europeo in America possono essere paragonate alla nascita di un uomo e se anche, perché Karl non si spaventasse inutilmente, egli diceva che in America ci si abitua piú facilmente di quanto non si possa farlo nella vita umana venendo dall'altro mondo, non bisogna tuttavia dimenticare che il primo giudizio che si formula non è mai molto preciso e che perciò è necessario stare attenti a non pregiudicare tutte le opinioni future con le quali bisognerà regolarsi nel resto della propria vita americana.

Egli stesso aveva visto certuni arrivati da poco che, per esempio, invece di tenersi a questi buoni principi, restavano per giornate intere sul loro balcone e fissavano la strada sotto di loro come pecore smarrite.
Quest'era uno spettacolo che doveva certamente confondere la testa.

Forse quest'ozio e questa solitudine che tentano di dimenticare se stessi davanti allo spettacolo di una dinamica giornata di New York, possono essere permessi o magari anche consigliati ad un turista; ma per uno che è destinato a rimanere in America sono una vera rovina; si poteva usare tranquillamente questa parola, anche se era un poco esagerata.
E difatti lo zio storceva arrabbiato il volto ogniqualvolta trovava Karl sul balcone, durante una delle sue visite che si ripetevano sempre una sola volta al giorno ma nelle ore piú diverse.
Karl ben presto se ne accorse e perciò si rifiutò il piacere di stare sul balcone.

Pag.44

...
«Lei era senza lavoro?» chiese innanzi tutto questo signore.
Questa domanda e tutte le altre che gli rivolse erano molto semplici, senza secondi fini, e le risposte non venivano controllate con altre domande ma tuttavia il signore riusciva a dar loro una certa importanza con lo sguardo che aveva mentre le pronunciava, col modo con cui ne esaminava l'effetto, tenendo il corpo piegato in avanti, con l'attenzione con cui accoglieva le risposte, ripetendole magari qualche volta ad alta voce, tenendo il capo piegato sul petto.

Non si comprendeva quale fosse il significato che dava a questo interrogatorio, ma tuttavia si provava una certa timidità e si sentiva il bisogno di essere prudenti.
Avveniva alle volte che Karl desiderasse all'improvviso di rettificare la risposta che aveva dato o di sostituirla con un'altra che forse sarebbe stata accolta con maggiore approvazione, ma ogni volta si tratteneva perché sapeva che questa esitazione doveva produrre una cattiva impressione e per di piú non avrebbe saputo calcolare l'effetto che producevano le risposte.

Inoltre, pareva che la sua assunzione fosse oramai cosa decisa, e questa coscienza gli dava un certo punto d'appoggio.
Alla domanda perciò se era stato senza lavoro, rispose con un semplice "sí".
«Dove ha lavorato da ultimo?» chiese quindi il signore. Karl stava già per rispondere, ma quello alzò l'indice e ripeté: «Da ultimo! ».
Karl aveva già compreso perfettamente la prima domanda, involontariamente perciò scosse il capo come per respingere questa interruzione che minacciava di confonderlo e rispose: «In un ufficio».

Questo corrispondeva ancora alla verità, ma se il signore avesse desiderato ulteriori informazioni sul genere di quell'ufficio, egli sarebbe stato costretto a mentire.
Ma invece venne quest'altra domanda, alla quale era tanto piú facile rispondere sinceramente:
«Era contento?».
«No» gridò Karl quasi interrompendo le sue parole, e volgendosi un momento di fianco, s'accorse che il capo aveva lievemente sorriso.

Poi si pentí del tono irriflessivo della sua ultima risposta, ma era stato troppo invitante per lui gridare quel "no", giacché per tutto il tempo in cui era stato nel suo ultimo posto, aveva avuto solamente il desiderio che qualche datore di lavoro estraneo fosse entrato nel suo ufficio e gli avesse rivolto questa domanda.
La risposta però aveva anche un altro svantaggio, perché il signore gli avrebbe potuto chiedere perché egli non era stato contento. Invece gli chiese:
«Per che lavoro pensa di essere adatto?».


Pag.297

Luigi, "Buona fortuna": qui avrai sempre e comunque amici che ti vogliono bene  (felice)

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Paolon




                                                       

Questo libro di Rumiz, uscito nel 2012, è una raccolta non solo di itinerari di quella, Trieste, il Carso, l'Istria, che vivo come una mia seconda "casa", ma anche di pillole di saggezza sull'ANDARE LENTO.
Qui ho trovato molte assonanze del Camminare con il Viaggiare Lento tipico dell'andare con le nostre vetturette.
Spesso è sufficiente tradurre camminare con viaggiare per ritrovare lo spirito che accompagna molti di noi una volta a bordo della 2CV. Ma poi sarebbe molto divertente scoprire che in tanti citronisti al piacere di Viaggiare spesso si accompagni, non a caso, quello del Camminare alla Rumiz.

Questo è il racconto di un viaggio a piedi che può servirvi da guida, ....
... Soprattutto, vorrei incitarvi a mollare gli ormeggi e andare, perché camminare rischiara la mente, conforta il cuore e cura il corpo.
Gli uomini camminano sempre meno, sono diventati sgraziati, si muovono curvi sui loro telefonini, hanno il collo storto per l'abuso del computer, le spalle rovinate dall'utilizzo del mouse, lo stomaco contratto dallo stress e la testa piena di segnali e rumori di fondo. Un indonesiano, o un etiope, cammina in modo più nobile e felpato di noi, e quando porta un bagaglio in equilibrio sul capo mostra un'andatura eretta e sinuosa che noi abbiamo perduto da un secolo.
Pag.12

Qualcuno dirà che sono esagerato.
Rispondo con una semplice osservazione fatta nelle vie delle nostre città. Una volta c'erano solo gli scontri frontali fra automobili: oggi è facile vedere scontri fra pedoni che si tagliano la strada alla cieca, digitando messaggini.
Guardando queste cose, e guardando anche me stesso, mi accorgo che non solo siamo diventati goffi e ridicoli, ma che stiamo anche perdendo il senso della realtà.

La nostra testa è cambiata. L'uomo che non cammina perde la fantasia, non sogna più, non canta più e non legge più, diventa piatto e sottomesso, e questo è esattamente ciò che il Potere vuole da lui, per governarlo senza fatica, derubarlo di ciò che Dio gli ha dato gratuitamente, e bombardarlo di cose perfettamente inutili a pagamento.

Chi cammina, invece, capisce, parla con gli altri uomini, li aiuta a reagire e a indignarsi contro questa indecorosa rapina che ci sta impoverendo tutti quanti.
Il semplice fatto di mettere un piede davanti all'altro con eleganza, di questi tempi, è un atto rivoluzionario, una dichiarazione di guerra contro la civiltà maledetta dello spreco.

I viaggi si sognano a lungo e io sognavo da anni il capo delle tempeste in fondo a quella penisola. Sognavo di tagliare l'Istria con un mio itinerario,
pag.13

intendo dire una strada scelta da me; una pista da individuare d'istinto, col fiuto di un buon cane da caccia.
Ero stufo di seguire le strade degli altri, di procedere su percorsi già segnati con in mano una guida.
Volevo ritagliarmi un'avventura mia, e lo spazio per farlo c'era.

Per l'avventura lo spazio c'è sempre, in qualsiasi parte del mondo. Basta rinunciare alle strade battute e alle strumentazioni elettroniche come il GPS.
Non fatevi smontare da chi vi dice il contrario.
Basta prendere una mappa e scegliere la strada.
Per uno che va a piedi la scelta delle mappe è fondamentale ed è un affar serio trovare quelle giuste.
Oggi che si usano i navigatori satellitari ne vengono prodotte sempre meno, ed è un peccato, perché solo la carta vi dà la visione d'insieme e vi aiuta a sognare una strada.
Le carte buone devono anche indicare chiaramente ogni dettaglio (ponti, sentieri, ferrovie, case isolate, foreste, scarpate rocciose o fiumi) e devono essere quindi della scala giusta. L'ideale per chi cammina è quella "uno a venticinquemila", dove ogni centimetro equivale a duecentocinquanta metri (e di conseguenza a ogni chilometro "reale" corrispondono quattro centimetri sulla mappa). Ma anche una buona carta con una riduzione a cinquqntamila può fare egregiamente il suo servizio.

Dicevo che non esiste viaggio senza sogno, e i sogni si covano a lungo. ...Ma spesso anche la realizzazione dei sogni è una cosa che si rimanda all'infinito. C'è sempre una scusa per rinviare. Il lavoro, lo studio, il mal di schiena, le scarpe che fanno venire le vesciche, l'assenza di alberghi confortevoli, il tempo che è troppo caldo oppure troppo freddo, il rischio di animali rabbiosi sulla strada.
- segue -
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Paolon

parte 2

..... Sappiatelo bene: partrire è difficile.
Troverete un'infinità di amici e parenti pronti a darvi degli Alibi per non andare, a scoraggiarvi, a dirvi che quello che volete fare è troppo faticoso, oppure che siete troppo giovane o troppo vecchio o troppo grasso o troppo magro, oppure che avete genitori o figli o fidanzate-fidanzati cui badare.
Bugie, naturalmente.
Segue parte 3

Una delle più clamorose è che vi perderete perché non conoscete la lingua del posto.
Ebbene: persuadetevi che per sopravvivere in qualsiasi territorio straniero bastano una cinquantina di parole. Ma attenti, scegliete quelle giuste. Sapere come si dice "telefonino" non vi servirà a niente. Sapere come si dicono acqua, fuoco, locanda, mangiare, eccetera sarà fondamentale. Questo minivocabolario sarà l'elenco dei vostri bisogni reali, mille volte più importanti di quelli inculcati dalla pubblicità televisiva.

Comunque sia, si comunica anche senza sapere le lingue.
Ricordo che negli anni novanta, in Indonesia, andai a passeggiare tra le risaie in una magnifica notte di stelle e incontrai un contadino che stava controllando la crescita delle sementi. Aveva una piccola lampada a petrolio. Ci sedemmo vicini, senza sapere niente l'uno della lingua dell'altro, e parlammo. Il tono della voce, lo sguardo e il movimento delle mani ci aiutarono a intenderci. Io capii che lui aveva sette figli, abitava oltre una certa collina e aveva un centinaio di oche nel suo pollaio.
Pag.17   

Ma c'è un'altra, e ancor più clamorosa bugia che si dice a chi parte.
Quella che non c'è il tempo, perché c'è questo o quello da fare.
Come se non ne buttassimo via a tonnellate, di tempo, davanti a un computer che ci propone viaggi solo virtuali, chattando.
Il tempo è nostro! Non permettete che vi sia sequestrato da altri. Non esiste nulla nella vita che non possa essere rimandato. Ma voi non lo sapete ancora, perché non avete conquistato la saggezza del camminatore.
E così, in mezzo a queste pressioni, si esita a lungo, si rinvia all'infinito la realizzazione del sogno.

Ma poi viene il momento che non se ne può più, e allora bastano due minuti per decidere.
La spinta a partire si scatena spesso per circostanze casuali.
Capita, per esempio, che il tempo a disposizione improvvisamente ci sia, un varco miracoloso in una foresta di impegni, una finestra di libertà che non si ripresenterà più.
Capita che il cielo sia clemente e che, in aggiunta, il corpo dia violenti segnali di ribellione. Perdita delle chiavi di casa, insonnia, malinconia, irritabilità, voglia di bastonare un tizio solo per come cammina.

Il nomade che abita dentro di noi reclama i suoi diritti, non vuole più restare incatenato a una sedia.
Anch'io ho avuto il mio segnale, ed è stato particolarmente violento.
Due giorni prima della partenza, in ufficio ero in preda a una tale tempesta di pensieri che nella fretta di portare un manoscritto da una stanza all'altra sono finito in  pieno con la fronte contro una porta a vetri che m'era parsa aperta. Ho perso quasi i sensi, sono caduto sul pavimento, poi il naso ha cominciato a sanguinare e a gonfiarsi come quello di un'alce. Ho fermato l'emorragia con un fazzoletto, poi mi sono guardato allo specchio del bagno, mi sono detto: "Rumiz, fai pietà" e ho capito che era ora di preparare il sacco e andare.

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Paolon

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Paolon

#28

Spesso capita che questo desiderio prepotente si risvegli nelle stagioni di mezzo, aprile-maggio o settembre-ottobre, gli stessi mesi in cui gli uccelli migratori si ripuliscono le penne e starnazzano senza pace in vista della grande trasvolata verso altri climi.
È un istinto che gli zoologi hanno codificato da tempo e si chiama "inquietudine migratoria".
Ecco, provate ad ascoltare anche voi questa frenesia che vi ribolle dentro e obbedite al suo impulso.

A me accade spesso di sentirla quando il profumo di acacia invade l'aria a primavera o quando tira aria di vendemmia sulle colline intorno alla città.
... Ho ricordi magnifici delle traversate in montagna compiute con i miei figli ... Il sacco da riempire, le minestrine liofilizzate, il fornelletto a gas, i bastoni telescopici, lo studio del percorso sulle mappe prima di andare. E poi le notti nei rifugi, a chiacchierare a bassa voce in camerata, nel letto a castello, o ad ascoltare la pioggia.
Avevamo sempre un milione di cose da dirci.

Gli occhi di un ragazzo fanno vedere di più e dilatano il mondo. ...
Pensate: basterebbe così poco per far sognare un ragazzino: riempire un sacco, comprare una tendina e partire per una meta anche vicina. Nel nostro mondo pochi genitori sono capaci di fare altrettanto con i loro figli.
E, non facendolo, non sanno quello che perdono.

A dieci anni l'uomo comincia a sognare i grandi viaggi, a sentire l'istinto della libertà e della giustizia. .. Solo a quell'età puoi credere di cambiare il mondo, e magari riuscirci.
Purtroppo, per il mio viaggio istriano non c'erano ragazzini a disposizione e i miei figli erano diventati uomini da tempo. Così ho dovuto ... "portare a spasso il bambino che è in me".
Significava che dovevo cercare di vedere il mondo con lo stesso occhio incantato di quando avevo dieci anni, leggevo i diari di bordo di Cristoforo Colombo o le avventure di Magellano dalle parti di Capo Horn, seguendone minuziosamente il tragitto su un vecchio atlante Zanichelli.

Arrendersi allo stupore è la chiave di tutto.
Il viaggio non è fatto per quelli che hanno smesso di meravigliarsi della vita.
Viaggiare da soli non è affatto male e comporta non pochi vantaggi. Ci si alza, si mangia e si cammina quando si vuole. Si parla con se stessi, si ricordano cose dimenticate e non si deve rispondere a nessuno delle proprie decisioni.

Ma soprattutto è più facile fare degli incontri.
Un uomo solo che va a piedi suscita curiosità e tenerezza assai più di una coppia o di un gruppo di uomini.
È più facile fargli domande, invitarlo a casa, offrirgli un letto.
... non passava un minuto senza che qualcuno chiedesse "Dove vai?" o "Da dove vieni?".
E quelle domande preludevano quasi sempre a un invito a casa. A chi viaggia solo spesso non serve prenotare alberghi.
...
Già, pensavate mica di partire senza un taccuino?
Qui potrei raccontarvi molte cose, ma tutto si riassume in questo: non esiste viaggio senza scrittura.
... buttare giù qualche appunto. L'andatura diventerà scrittura con una facilità tale che vi meraviglierete di voi stessi.
Sulla strada vi scoprirete scrittori. Basta che vi lasciate andare.
Pensieri nuovi e freschi sgorgheranno alI' improvviso e voi dovrete fissarli immediatamente prima che scompaiano.
Pag.27

Il diario, vi diranno, è una cosa che si scrive la sera. Bugia! Il diario va fatto "on the road", in certi casi durante la camminata.
Da qui alcuni consigli pratici: penna e taccuino si devono poter estrarre con rapidità, come le pistole di un cowboy.
Ho girato mezzo mondo e usato centinaia di taccuini a causa del mio mestiere di giornalista, e posso dirvi che la cosa migliore è procurarsene uno con la rilegatura a spirale, capace di rimanere sempre aperto sull'ultima pagina, e abbastanza piccolo da poter stare comodamente in una tasca esterna.
E la penna - attenti - non deve avere cappuccio, perché si deve poter aprire velocemente con una mano sola: quindi prendetene una col pulsante posteriore...

Partire con l'anima in pace significa lasciare a casa diavolerie come quella chiamata "iPod", che ti impedisce di ascoltare il silenzio o sentire la musica della natura; oppure cose come il suo fratello maggiore "iPad", lo schermo delle meraviglie che magari vi dirà in ogni istante dove siete, ma vi toglierà il gusto di orientarvi guardando il paesaggio.

E poi, lo imparerete presto, una persona talvolta ha anche il diritto di perdersi, di far sparire le sue tracce.
Con quell'aggeggio, invece, non avrete mai sorprese. Soprattutto, non sentirete mai il bisogno di chiedere la strada a nessuno, e questo non va affatto bene, perché i viaggi si fanno non solo per vedere luoghi ma anche e soprattutto per incontrare persone.

Un ultimo avvertimento, quasi una superstizione.
Quando si esce di casa per iniziare un viaggio lungo, è buona norma non girarsi.
Un proverbio greco, adatto ai lupi di mare, dice: "Non guardare mai la riva che lasci".
Non guardare serve a evitare attacchi di nostalgia dopo qualche chilometro.
Nostalgia è una parola speciale, greca anche questa: viene da "nostos", che significa ritorno, e dalla radice "alg", che vuoi dire dolore, ed è la stessa che si usa per "nevralgia".
Nostalgia significa dolore da ritorno" o, meglio, quella cosa che vi fa ammalare dalla voglia di tornare alle vostre cose care.

Il passo più difficile dei viaggiatori è sempre il primo, quello che si fa per uscire dalla porta. È un atto che costa fatica, ma rende liberi. Anche per questo i viaggi più belli sono quelli che iniziano esattamente in quel punto.
Partendo da casa si possono prendere meglio le misure del mondo.
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