Recentemente sono stato a Praga e in Boemia in pullman. Più che altro mi ha demoralizzato il rientro nel cosiddetto Bel Paese che bello non è più. Accludo quel poco che ho scritto, a ricordo del viaggio, e 5 foto di cui 4 a tema automobilistico.
PRAGA-IVREA IN PULLMAN: FISIONOMIA DI UN PAESAGGIO
Rigorosamente on the road, che sia in auto, treno o pullman, ma anche a piedi o in bicicletta, il viaggio via terra espone la propria presenza al paesaggio rendendolo parte viva e integrante del nostro andare. Con l’aereo ci spostiamo, l’involucro bianco delle nuvole, come una nuova terra sotto le ali, e il tessuto azzurro del cielo sopra di noi, ma sulla strada viaggiamo, cogliamo l’insieme della distanza, percepiamo il mutamento dei luoghi, avvertiamo il tempo necessario a percorrerli.
Sul pullman che ritorna da Praga, passato il Brennero, l’Italia che ti viene incontro, la veduta dal finestrino è quella di un paesaggio perduto, un paesaggio che semplicemente non c’è. Non si tratta, solo di malinconia del viaggiatore, dettata dal desiderio comprensibile di prolungare le meraviglie dell’altrove, si tratta dell’impatto con la nostra realtà, con il nostro ambiente selvaggiamente oltraggiato da una cementificazione senza senso. Dalle soffici colline della Boemia, ammantate di neve, dalle città come Cesky Krumlov, raccolta sulle anse della Moldava, come in un quadro del Bruegel, alle foreste di pini, ai villaggi più piccoli dove le finestre, senza scuri, sono decorazioni luminose del Natale, dalla bellezza degli spazi incontaminati, che catturano la sguardo senza interruzione di continuità, si passa alle foreste di casa nostra: infilate di capannoni, zone industriali, spesso dismesse, tetre luci arancioni, degrado periferico senza uguali.
Questa sopra è Cesky Krumlov, perla della BoemiaE’ vero, siamo un paese più industrializzato e a densità di popolazione più alta, ma lo spettacolo non è più quello del Bel Paese. La bellezza è sparita e in Italia bisogna cercarla solo nei centri storici, facendosi largo tra periferie allucinanti e devastate, che sfilano lungo i fianchi dell’autostrada, attraverso la pianura Padana, in un unicum di brutture a cielo aperto. Brutture a cui ci siamo abituati e che ci hanno resi indifferenti, preferendo il pieno dello scempio edilizio al vuoto degli spazi naturali, alla distesa dei prati.
Una giovane gitante sul pullman, mentre si attraversava la bella terra boema, ha esclamato: “Ma dove ci portano, in mezzo ai boschi? Ma qui non c’è nulla da vedere!” ed un altro, nei pressi di Bergamo, si consolava del degrado nostrano, ricordando come Bergamo alta fosse comunque un gioiello. Già, un diamante in mezzo al letame delle periferie, così brutte come è difficile vederne nei vari paesi europei che ho visitato, se si esclude la povera Albania dove adesso, nell’abbrivio dello sviluppo, copiano da noi tutto il peggio di cui disponiamo.
Quest'auto, che non so identificare, scarrozza i turisti nel centro di Praga. Meglio naturalmente le nostre 2cv a Parigi!
Il paesaggio che non c’è, l’Italia senza orgoglio né identità, spettacolo misero delle vacanze! Da Milano a Ivrea, prendo il treno fino a Santhià e la solfa non cambia. Della poca terra, sfuggita all’assedio del cemento, che scorre fuori dal finestrino, non importa niente a nessuno. I pochi rettangoli di boscaglia presenti sono un ammasso di rovi, poi il solito grigiore dei capannoni, sequenze di orti abusivi e vecchi casali abbandonati dal tetto sfondato. Due signori inglesi, accanto a me, guardano mestamente dal finestrino e, con discrezione propriamente anglosassone, mormorano “It’s a great desolation”. Ecco, questo è il mio paese, questa l’immagine che offre di sé, il grande paese dove non c’è nemmeno un partito dei Verdi, dove il territorio è terra di saccheggio e il, tanto decantato, privato non ha saputo far altro che seminare cemento.


Ed ecco, sempre per le vie di Praga due auto che ben segnano la linea di demarcazione tra il passato comunista e il presente capitalista. Anni di storia raccontati da due auto, la popolarissima Trabant e un'esagerata Bentley usata a fini pubblicitari con tanto di bellezze a decorarne le fiancate. Tornato a casa, leggo che solo in Piemonte, da anni si cementificano, ogni giorno, aree verdi di superficie pari a quelle di sei campi di calcio.
L’urbanizzazione procede con tassi di crescita superiori a quelli della popolazione ma, siccome un terreno edificabile vale fino a 50 volte di più di uno agricolo, ecco che i comuni, per fare cassa, modificano i piani regolatori. Per fermare la speculazione, ogni tanto si dichiara che ci sarà una nuova legge.
Lo dicono anche i politici che occorre arrestare il consumo del suolo, l’aveva detto anche Renzi, prima che un esercito di fiduciosi ottimisti lo votasse. Ogni tanto ti fanno vedere che, dopo 40 anni, qualche eco mostro va giù. Uno va giù e cento ne spuntano. Lega ambiente fa quello che può, e stoppare il consumo del suolo sarebbe già molto, ma liberarlo dal troppo cemento, già presente, sarebbe il mio sogno impossibile.
Erri del Luca, lo scrittore sotto processo per le sue dichiarazioni No Tav, ha detto che la Tav non si farà non perché è arrivata l’illuminazione delle coscienze, ma perché ormai tutti, italiani e francesi, si sono accorti che costa troppo. Intanto i lavori continuano perché bisogna speculare finché si può. Poi la montagna rimarrà con il suo buco nella pancia e i segni, della vana impresa, incisi indelebili nel paesaggio. In fondo c’è gente a cui del paesaggio non importa nulla, anzi manco lo vede, così come c’è gente a cui non importa nulla se si estingueranno la tigre o l’orso bianco. Verranno altre specie di animali, dicono, e tirano dritti. Questo è lo spirito dei tempi, uno spirito che stringe la gola e ci fa prigionieri di un’irreversibile decadenza. La speranza, in un angolo, attende paziente l’evoluzione umana che, a differenza di quella tecnologica, si fa sempre attendere troppo.
